Le Aevolate di Aes

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    Il drago azzurro che puzza di pesce

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    Bo, sinceramente ero indeciso se aprire questa raccoltina di storielle, ma... bo xD l'ho fatto :)

    Ciò alcune cavolate-aevolate che ho sul PC da tempo, alcune partecipate anche a dei concorsi e una pure ha vinto quindi yeaaaa xDD
    sono storielle che scrivo così a sciallo, dei temi più disparati, e ora vi faccio una selezioncina presa a caso...

    Questa possiamo considerarla... una specie di fiabetta fantasy dai:

    ___________________
    Lo specchio dell’anima

    C’era una volta una splendida creatura.
    Una fenice, tanto bella da poter essere considerata un essere divino. Il suo piumaggio colorato, le sue ali luminose e l’eleganza dei suoi movimenti erano impareggiabili per qualunque altra creatura vivente.
    Lei, però, iniziò a credersi orribile quando si stava approssimando al suo cinquecentesimo anno di vita, anno in cui avrebbe dovuto darsi fuoco per celebrare nobilmente il momento della sua ascesa al cielo.
    Quel giorno, il mattino color lapislazzulo e le verdeggianti chiome degli alberi accompagnavano il suo dolce canto, mentre raccoglieva il mirto e l’incenso per il balsamo del nido su cui si sarebbe lasciata divampare.

    Planava con leggerezza sul fresco tappeto erboso che ricopriva il suolo della foresta, scivolando tra le braccia del vento che accompagnava le sue ali.
    Non era ancora giunto il giorno della sua morte, ma a lei non interessava. credendosi brutta, aggettivo che non poteva essere attribuito ad una fenice, pensava di non avere più alcun motivo di continuare a vivere e l’immortalità le era solo d’ostacolo.
    Si appollaiò sulla quercia su cui stava costruendo il nido, continuando ad ammassare e intrecciare i rametti e le erbe aromatiche che raccoglieva da giorni.

    dopo alcuni minuti vide una grossa ombra oscurare le chiome degli alberi e alzò lo sguardo per capire di cosa si trattasse.
    Gli altri uccelli e gli scoiattoli nei dintorni si nascosero spaventati, mentre lei osservava stupita il drago che stava sorvolando la sua quercia. Il suo manto di scaglie nere come la notte rilucé contro il cielo luminoso, mentre planava fiero e selvaggio verso il basso.
    Posò le zampe muscolose a terra, affondando gli artigli sul fogliame sottostante e rivolgendo uno sguardo di lode alla fenice.

    “Il tuo canto è bellissimo, ma è triste”
    Lei restò seduta su una fronda dell’albero. Anche da quella posizione riusciva a fissarlo dritto negli occhi, vista l’altezza della creatura.
    “Si, ormai ho raggiunto una certa età e il mio corpo è orrendo, per questo sto preparando il nido in cui darmi fuoco”
    “Orrendo? Credo tu ti stia sbagliando”
    La fenice chinò il muso, assumendo un’espressione corrucciata.
    “Ma guardami! Ti sembro forse bella?”
    Il drago non rispose, limitandosi a voltarsi verso l’orizzonte, perdendo lo sguardo nella distesa di verde e di vita che gli si parava d’innanzi.
    “Puoi seguirmi?” Disse, balzando in aria e sollevandosi verso l’alto.

    La fenice accettò, incuriosita dal suo comportamento misterioso. In breve giunsero alle rive di un piccolo laghetto, per metà adombrato da una cupola di rami e foglie.
    Il drago, senza attendere un istante, sfiorò il pelo dell’acqua con una zampa per poi indietreggiare lentamente. Sulla limpida superficie si formarono alcuni sottili cerchi opalescenti, che andarono dolcemente ad intrecciarsi tra loro.
    “Avanti… guardati anche tu”
    La fenice si avvicinò all’acqua cristallina, restando sbalordita nell’osservare il suo riflesso su di essa.
    Non poteva credere di essere veramente tanto stupenda, non riusciva neanche a riconoscersi.
    “C… cosa… ma quella non sono io”
    Il drago allungò il collo verso di leii e rispose:
    “Questo è lo specchio dell’anima. Chiunque osservi la propria immagine riflessa in questo lago si vedrà come la vede chiunque si sia bagnato nelle sue acque qualche momento prima”
    Lei impiegò qualche secondo per capire.
    “Quindi tu mi vedi così?”
    Il drago annuì.
    “Si”
    Quella risposta l’aveva convinta a rinunciare alla sua morte prematura, portandola a scoprire il significato dell’amore.
    Le due creature vissero in sieme da quel giorno. Solcarono cieli infiniti, attraversarono gli oceani più burrascosi e diventarono compagni di volo inseparabili.

    Quando arrivò il giorno della sua morte, la fenice ricominciò ad accumulare le erbe e i rametti per il suo nido, aiutata dal drago che non si era più separato da lei.
    non volendola abbandonare neanche un momento, il drago decise di accendere lui stesso il nido con una piccola fiammata, così la fenice avrebbe percepito il calore del suo affetto anche nei suoi ultimi istanti di vita. Lei salì sul nido e si diede fuoco, mentre il drago ruggiva al cielo notturno tinto di stelle luminescenti che li copriva come una coltre tenera e carezzevole.

    Il drago è immortale, una vita della fenice dura cinquecento anni.

    Così, dopo pochi istanti, dalle proprie ceneri la fenice rinacque e avvolse il collo del drago con le sue ali.
    Nonostante la loro diversa natura avrebbero vissuto insieme, per l’eternità, uniti dal fuoco che ardeva nel cuore di entrambi.
    Anche adesso, che sia alba o tramonto, è possibile scorgere le loro ali maestose librarsi all’orizzonte.
    Verso un leggendario destino, unite.
    ___________________

    Poi aspe che ciò... una specie di poesia, che non ha senso ma bo io la posto chi se ne:








    ___________________
    Spartiti e speranza

    Mi chiedo… per quanto il sospiro del tempo potrà condurmi sulle sue ali?
    Per quanto il giorno sarà musica e la notte poesia
    E quand’è che le foglie spegneranno la loro melodia?
    Nel letto del fiume e nei suoi tanti canali
    Fluiscono ricordi, note e speranze.
    Mi siedo qui, di fronte al caminetto,
    osservo il fiume e il suo soffice letto.
    Son tristi ma indolori le distanze
    Quando gli spiriti non son metà,
    quando s’oscura il volto della realtà…
    quando è il cielo a chieder perdono,
    non più sinonimo ormai di condono.
    Mi chiedo se fra le mani della nostra compagna,
    unica lei… schietta e sincera…
    ci si senta come un gesso sulla lavagna,
    fiotti di bianco su una superficie nera.
    Mi chiedo se sperar mi sia concesso,
    di aprirle la porta e prenderla per mano.
    In fondo… questo è solo un cuore umano.
    Ma perché me ne preoccupo adesso?
    Lasciamo scorrere le dita sul violino,
    rispondiamo a tono alla voce del destino.
    Se verrai a chiedermi… di cos’è che hai paura?
    Non dirrò altro che… “di dimenticar quest’avventura!”
    E dimentichi di chi siamo… nel rosso ci crogioliamo.
    Facciamo del misfatto … un silenzioso blu scarlatto.
    Oh tu caro ingenuo, sappi che non saremo mai fenici.
    Tu, che hai perso la speranza… attento a quel che dici!
    ___________________

    Em... si va beh, non fate domande U.U. Ah vi metto pure la prima storiella """"seria"""" che scrissi, che risale tipo a un decadenquennio fà:
    Tenetevi forte perché non ha il benché minimo senso






    ___________________
    E lo guardai negli occhi


    C’era una volta… Me.
    Eravamo solo noi: io e Me, uniti in un abbraccio di solitudine che di tutto sapeva fuorché di unione.
    Ero un re? Ma no… un cavaliere? Nemmeno per idea. Un guerriero forse? Credo di si.
    Ero un guerriero, che fronteggiava ogni giorno un potentissimo e incrollabile nemico. Ma prima che gli fosse concessa l’opportunità di combattere il più temibile e agguerrito degli avversari, il guerriero dovette ingaggiare battaglia contro il più pericoloso dei suoi nemici. Anch’egli era un guerriero, di nome Me. Entrambi si chiedevano chi fossero, senza però trovare mai una degna risposta.
    Ma non vi ho appena detto di essere un guerriero?
    Si, quel guerriero che la mattina si svegliava, si guardava attorno in cerca della lama avversaria e si alzava dal suo giaciglio con lo sguardo fiero e le armi pronte per lo scontro?
    Nello scorgere i bagliori dell’alba mi rendevo conto che ancora la battaglia non era cominciata, ma non abbassavo certo la guardia. Non potevo farmi cogliere alla sprovvista come un dilettante.
    Quel giorno, era uno dei tanti. mi diressi dal mio scudiero e dalla mia principessa come facevo tutte le mattine dopo essermi destato, e guardai nei loro occhi meravigliosi. Occhi per i quali avrei lottato sempre, avrei combattuto fino all’ultimo respiro. Fino allo stremo delle forze, dando il massimo di me nel più sottile fendente, nel più rapido degli affondi.
    Poggiai una mano sulla soffice chioma del mio piccolo scudiero, promettendogli che quella sera saremmo andati insieme ad allenarci.
    Baciai quella splendida principessa con tutta l’energia di cui ero capace, energia che nessun mio fendente avrebbe mai potuto eguagliare in potenza.
    Scesi nella scuderia, dove il mio leggendario cavallo mi attendeva. Il mio più grande, insostituibile amico. Osservai anche i suoi occhi, gli occhi di un compagno che non ti avrebbe mai tradito… per nulla al mondo.
    “Andiamo?”
    Forte della sua presenza mi allontanai verso il campo di battaglia, che mi attendeva in tutta la sua cruda e feroce realtà. Quell’enorme arena che conoscevo molto bene.
    Speravo in un azzurro e rilucente cielo spettatore, ma chi sa perché il più delle volte era così spento e cinereo da occludere anche il più intenso dei raggi solari. Quel giorno non fece eccezione.
    Giunto a destinazione trovai il mio avversario, già pronto per mettermi alla prova. Con quella sua solita aria di sfida, con quel solito ghigno perfido stampato sulle labbra. O forse era un semplice sorriso di benvenuto, difficile capirlo.
    “Sei in ritardo” Mi disse, con lo sguardo gelido e la voce resa profonda dal suo tentativo intimiditorio.
    Osservai anche i suoi occhi… non più caldi e rincuoranti come quelli del mio scudiero, o della mia principessa. Quegli occhi erano duri, imperturbabili. Eppure non accennai ad abbassare lo sguardo.
    “Mi dispiace”
    Beh non era vero, in effetti non mi dispiaceva per niente. Piuttosto mi doleva non poter essere rimasto qualche minuto in più con il mio adorato scudiero, magari avrei potuto accompagnarlo al suo addestramento quotidiano, magari avremo potuto divertirci qualche minuto di più.
    “Pazienza” Mi dicevo, mi rincuorava pensare che la sera l’avrei rivisto. Il mio piccolo scudiero…
    Lo scontro così iniziò.
    Il mio ruolo in quella sfida era il più difficile, era quello di resistere. Non dovevo attaccare, dovevo limitarmi ad incassare i colpi del nemico e reagire a mia volta, senza mai arrendermi. E ci riuscii. Anche quel giorno, come ogni giorno.
    Ero un guerriero indomabile, la mia spada emanava una luce selvaggia che scaturiva dal mio più grande desiderio. Un desiderio ardente, inarrestabile, infinito. Il desiderio divampante nel cuore di tutti coloro che come me avevano qualcuno da proteggere, come ogni guerriero che si rispetti del resto.
    “Sii!” Esultai, al termine dello scontro, levando la spada verso il cielo. Avevo vinto, avevo vinto ancora una volta.
    E mentre tornavo a casa le osservavo, quelle fiammeggianti danze di fenice, che volavano sopra la mia testa nella direzione opposta alla mia.
    Quella sera fu incredibile, indimenticabile, stupenda. Come ogni altra sera del resto.
    Mangiai con gusto a tavola, al fianco della mia principessa e del mio scudiero, mentre ci raccontavamo miti e leggende antiche come tribù di guerrieri seduti attorno al fuoco che si levava zampillando alto nella volta notturna.
    Giocammo, ridemmo e sorridemmo. Insieme, uniti.
    Si… uniti. Adesso potevo veramente ritenermi partecipe di una sincera unione. Finalmente… una sensazione stupenda, un’emozione bellissima e inarrestabile. Non c’eravamo più soltanto io e Me.
    Al fianco della nostra umile capanna si trovava un piccolo lago, un limpido specchio d’acqua che la sera si tingeva dei candori della luna. Vidi il mio riflesso in quella superficie cristallina e mi soffermai un attimo sui miei occhi. E li guardai. E li vidi.
    Gli occhi di un guerriero, stanco per la battaglia, ma ancora in piedi.
    Un impavido guerriero che non si chiedeva più chi era.
    Aveva affrontato e sconfitto Me, e solo così aveva potuto affrontare quella giornata per giungere a quella serata così vincente e gloriosa. Me era stato un degno e competitivo avversario, ma il guerriero aveva accolto il suo stesso timore, la sua stessa rabbia e il suo stesso amore finché non riuscì a prevalere.
    Li osservai di nuovo:
    Gli occhi di un guerriero, di un marito, di un padre.
    ___________________

    Lo so è strana non la capisco nemmeno io per bene xDD.
    ok torniamo seri, ora vi metto qualcosina di un pochino più sentimentale.
    A questa ci tengo particolarmente ^^ e se siete molto sensibili non so se dovervi consigliare di non leggerla...





    ___________________
    Come un suo pari

    Era l’alba, di nuovo l’alba di un altro giorno.
    Laer aprì gli occhi lentamente, abituandoli in breve alla tenue luce che filtrava timidamente dall’entrata della sua tana, il suo cespuglio di altissimi ciuffi d’erba. Voltò lo sguardo ancora leggermente appannato verso il punto in cui si aspettava di trovare la figura di sua madre, per rimanere stupito di non vederla distesa, a fissarlo, come faceva ogni giorno quando lui si destava.
    Probabilmente era andata a cercare qualcosa da mangiare, oppure era scesa verso il fiumiciattolo per rinfrescarsi in vista della giornata che li aspettava.
    Si alzò sulle zampe, camminando a passi leggeri verso l’esterno e lasciandosi inondare dal bagliore dei raggi solari, i quali rischiaravano il bosco di vivaci zampilli colorati; i giochi di luci ed ombre si mischiavano in fitte ragnatele di pulsante energia, l’azzurro del cielo baciava maestoso le chiome degli alberi estivi, mentre il canto della natura si faceva strada nelle sue orecchie in una dolce melodia quotidiana e inebriante.
    Affondò i piedi nell’erba, felice di percepire i fili freschi e umettati solleticargli le zampe. Se ne restò quasi un intero minuto immobile, in ascolto. Sperava di sentir tornare la madre dal fitto di alberi di fronte alla tana, ma pareva stesse attendendo in vano. Decise dunque di prendere l’iniziativa di allontanarsi, tanto… cosa sarebbe mai potuto succedere?
    In fondo la sua vita da capriolo adolescente stava per finire, adesso sapeva procurarsi il cibo da solo, sapeva distinguere ciò che era pericoloso da ciò che non lo era, e non avrebbe avuto difficoltà a diventare un maschio forte e indipendente.
    Diresse per un breve istante il suo sguardo nocciola alla volta azzurra sopra di lui, per poi tornare ad osservare i roditori che correvano sulle radici degli abeti circostanti, oltre che le ghiandaie e i pettirossi appollaiati pacatamente sulle fronde sovrastanti.
    Ognuno aveva il suo ruolo lì, ognuno era parte di quel bosco come lo sarebbe stato anche lui. E fu allora che capì: la madre non sarebbe tornata.
    Era giunto il momento, se n’era andata. Tornò all’interno della propria tana scostando in un morbido fruscio gli alti cespi verdi, sperando di essersi sbagliato.
    Niente, la madre non c’era. Poteva aspettarla ancora, ma era certo di sapere che sarebbe stato inutile.
    Uscì di nuovo dal suo dolce rifugio, che l’aveva ospitato per tutti quegli anni, mentre una strana gocciolina salmastra gli attraversava il muso per colargli verso le labbra. Non l’aveva mai percepita una cosa del genere, cos’era? Se la sua mamma fosse stata lì gliel’avrebbe spiegato, sicuramente.
    Decise di ignorarla, magari l’avrebbe scoperto in seguito. Si mosse dunque per andare alla scoperta di quella che sarebbe stata la sua vita da adulto. Aveva visto molti altri caprioli maschi girovagare per i boschi da soli, senza la compagnia delle loro madri, quindi ci sarebbe riuscito anche lui. Adesso il suo sguardo era fiero, deciso, convinto e selvaggio.
    Avrebbe dimostrato a se stesso e al mondo che anche lui esisteva, avrebbe conquistato il suo posto nel mondo… e quindi per prima cosa sarebbe stato meglio dirigersi verso il fiumiciattolo. Si era accorto solo in quel momento di star morendo di sete!

    ***

    L’alba sferzò implacabile i vetri della finestra della sua stanza, mentre il suono della sveglia gli ricordava che era arrivato il momento di alzarsi. A fatica scostò il cuscino da sotto al volto, lanciando via le coperte come un bambino capriccioso e menando una sberla alla sveglia.
    Questa tacque all’istante, come spaventata di poter ricevere un altro ceffone se avesse continuato a contorcere le scatole.
    Jaden guardò le pale del ventilatore appeso al soffitto ruotare per qualche momento, constatando che la sera precedente faceva abbastanza caldo da impedirgli di ricordarsi di spegnerlo.
    Si domandò il perché la sveglia avesse suonato, dato che era domenica, e per qualche motivo l’avesse svegliato a quell’ora così ingiusta in un giorno che sarebbe dovuto essere di riposo. Ricordò poi di aver deciso, mentre spegneva la TV la sera precedente, che la mattina seguente sarebbe partito di gran carriera per una delle sue passeggiate in pieno stile papà Alfred, che era mancato quattro anni prima.
    Lanciò uno sguardo all’amato fucile ad anima rigata, appartenuto proprio a suo padre, appeso in piena vista alla parete al suo fianco. Quell’uomo gli aveva insegnato tutto sulla caccia, e lui era sempre vissuto sotto i suoi insegnamenti, apprendendone i segreti giorno dopo giorno, battuta dopo battuta. Adorava quel brivido, quell’immedesimarsi nel predatore che bracca la preda, obbligandola ad uscire allo scoperto.
    Diventare loro pari.
    L’influenza di suo padre era sempre stata rilevante nella sua visione della vita, e anche grazie alla caccia aveva imparato a rispettare la natura e la vita stessa. Ciò non ha senso, direbbero in molti, ma per lui di senso ne aveva e come.
    Non era quel genere di vigliacco che piazza archetti, reti o rametti cosparsi di vischio per catturare gli uccelli, non era certo un bracconiere. Anzi, aveva imparato ad odiarli e a riconoscerli, non per altro si era ritrovato più di una volta a dover ovviare a situazioni spiacevoli dopo esser stato scoperto a distruggere trappole fra gli alberi.
    Era in giusto, diceva suo padre. La preda e il predatore devono trovarsi faccia a faccia, lo scontro deve esistere come esiste nelle foreste, nei deserti e negli oceani. Una battaglia primordiale, che sempre è esistita e sempre esisterà. In attesa di un volatile da impallinare, nascosto furtivo fra la vegetazione, silenzioso e e sempre pronto ad attaccare, rapido e implacabile.
    Anche la sua vecchia madre, che ormai aveva raggiunto la veneranda età di novantaquattro anni, se n’era andata lasciandolo definitivamente solo nella sua casetta in montagna. A volte la vedeva, la sentiva, con la sua allegra risata, mentre camminava con il passo più potente del mondo tra i sentieri che s’iinerpicavano su per la montagna con quel suo fare da montanara instancabile.
    Amava i suoi genitori, anche se era sempre stato un tipo solitario e non amava molto la compagnia se non degli amici più stretti, anzi trovava impensabile per uno come lui la vita trascorsa a costruirsi una famiglia.
    Forse era convinto di non avere nulla da offrire, o forse pensava che non ci fosse nient’altro che potesse dargli più gioia di una vita trascorsa girovagando per i boschi nel tempo libero, dopo giornate di lavoro tra orti, serre, campi da arare e qualche lavoretto occasionale giù in paese.
    Di recente si era ritrovato più volte a dover rinunciare al suo fucile, semplicemente perché erano giorni che usciva dimenticandolo a casa, e si ritrovava quindi a godersi la pura e immacolata festa che solo il dolce tepore del bosco e delle selve poteva donargli.
    Quel giorno il fucile lo prese, ma non aveva veramente intenzione di usarlo. Fu piuttosto una qustione di abitudine, che anche a causa dell’età stava perdendo.

    ***

    Laer camminò, camminò ancora e si fermò. Ricominciò a camminare, per poi fermarsi di nuovo. Riprese a scendere tra i serpeggianti pugni di vegetazione che si distendevano lungo i versanti del monte, in un intricato labirinto di cespugli e di verde, alla giocosa ricerca del suo futuro.
    Il cielo sembrava promettere bene, ma era meglio che trovasse un nuovo luogo in cui stanziarsi, in vista della notte. Non era abituato ad affidarsi unicamente alle sue forze, c’era sempre stata sua madre ad accompagnarlo e, soprattutto, a guidarlo. Adesso sarebbe stato lui stesso la propria guida, doveva contare sulle sue sole capacità per procacciarsi il necessario alla sopravvivenza.
    In seguito avrebbe cercato una compagna, come facevano tutti i giovani della sua specie, e l’avrebbe corteggiata nel più incredibile dei modi. Forse avrebbe formato un piccolo branco, o forse avrebbe deciso di restarsene solo fin quando non avesse sentito il bisogno di qualcun altro.
    Voleva scendere ancora un po’ verso il basso, raggiungendo il termine degli ampi pendii, fino in una radura stracolma di verde e di nuove realtà da scoprire. Non era mai sceso da quelle parti, perché sua mamma gli aveva detto che li sarebbe stato troppo vicino agli uomini, che quel luogo era pericoloso. Sicuramente doveva averlo detto perché non lo riteneva ancora pronto, ma finalmente adesso lo era.
    Notò che più scendeva verso il basso, più il cielo si scuriva. Come dalla città provenivano macchie opache di grigio sfocato, così dal cielo che la copriva sembravano dispiegarsi fasci di nuvole plumbee; minacciose mani di nembi protese verso il monte come per ghermirlo.
    Avrebbe sicuramente iniziato a piovere di lì a poco, e se ne rendeva sempre più conto ogni istante che passava. Decise allora di cambiare meta, e di pensare il giorno seguente a destinazioni lontane come quella.
    Aveva riempito lo stomaco d’acqua, si era addentrato nei meandri più selvaggi che i versanti del monte potevano celare, ma ancora non aveva pensato a rifocillarsi con qualcosa di delizioso, tanta era stata la triste euforia scaturita dalla scomparsa della mamma.
    Si tuffò a capo fitto nel cespuglio di rovi più vicino, cercando di acciuffare con il naso portentoso tracce di frutti selvatici, una ghiottoneria che con la madre si divertiva un mondo a stanare.
    Passavano ore a giocare insieme e a condividere il sapore di quelle squisitezze, e pensare a lei stava diventando qualcosa di naturale, come se, ovunque si trovasse, ancora lo stesse guidando.
    Forse… ho ancora bisogno di te…
    Si intrufolò nel groviglio di rami ancora più a fondo, quando d’improvviso sentì qualcosa di spaventoso mordergli una zampa. D’istinto provò a indietreggiare, tirando con forza l’arto nella direzione opposta, ma non ottenne nient’altro che un dolore lancinante.
    Tanto era fitto l’intreccio di rovi spinosi attorno a lui, che non riusciva neanche a vedere cosa lo stesse trattenendo. Tirò, provò ancora e abbaiò di rabbia e di frustrazione,, mentre ogni volta che si squoteva le cuspidi aguzze di quei tralci non facevano che ferirlo e farlo sanguinare.
    Non era possibile, cosa stava succedendo!
    Nel panico più assoluto, sentendosi impotente, si dimenò sempre più continuando a squarciarsi il pelo e la pelle sottostante, ormai la disperazione si stava impadronendo del suo corpo.
    Un lampo di luce bianca, un assordante frastuono echeggiò all’orizzonte facendolo trasalire.
    Alcune gocce d’acqua gli lambirono la testa e il dorso, scivolando sui suoi fianchi ormai martoriati, unendosi alla pioggia che aveva ricominciato, questa volta con molta più insistenza di quando aveva scoperto di essere rimasto solo, a scendere dai suoi occhi semichiusi.
    Dopo altri ennesimi tentativi si arrese, mentre le sue giovani esili zampe da cucciolo iniziavano a cedere e ad afflosciarsi. Mentre si accasciava su quel terribile giaciglio spinoso si ferì al naso ed evitò per un sospiro che un ramo gli si conficcasse in un occhio.
    I cespugli che aveva tanto amato, adesso sembravano avercela con lui.
    Ma non erano stati i cespugli a tradirlo. E probabilmente anche lui se ne stava rendendo conto.
    Scrosci d’acqua iniziarono a piombare al suolo pesanti e inesorabili, abbattendosi sul suo povero corpo totalmente inerme.
    Si, aveva capito cosa gli era successo, e il suo piccolo muso si trasformò nell’espressione del terrore più oscuro, quando udì quei sinuosi passi avvicinarsi.

    ***

    Jaden si stupì di come il cielo avesse improvvisamente scelto di mettergli i bastoni tra le ruote proprio mentre stava per tornarsene a casa. Era stata decisamente una passeggiata più che soddisfacente, aveva girato intorno all’ampio bosco di conifere circondato da una lunga mulattiera nel quale si consumavano gran parte delle sue scampagnate.
    Si portò sulla testa il cappuccio della grossa giacca nera, dandosi una leggera scrollata ai vestiti che stavano già iniziando ad inzupparsi d’acqua. La volta grigiastra sopra la sua testa stava sprizzando lampi abbaglianti e ruggiva di rabbia, fu perciò costretto a cercarsi un riparo che almeno gli permettesse di far sfogare i nuvoloni senza bagnarsi ulteriormente.
    Proprio quello che intendeva per diventare un loro pari: adesso stava cercando riparo, una tana, come un qualunque animale. Dopo qualche secondo di indecisione, il massimo che individuò fu una cupola di abeti, talmente fitta da formare una sorta di tetto naturale retto dalle robuste braccia lignee che fungevano da travi. Era consapevole che non era sicuro ripararsi sotto alberi così esposti durante un temporale, tuttavia volle correre il rischio.
    Aprì lo zaino che portava a tracolla, anch’esso fradicio, e lo gettò a terra per rovistarvi all’interno. Ne estrasse una borraccia azzurra, alla quale si attaccò avido come un’ape sul polline di un fiore. Tanto valeva approfittare della pausa per ricaricarsi.
    Smise di bere all’improvviso, restando immobile con ancora la borraccia sospesa a mezz’aria, tendendo le orecchie; nonostante il forte suono della pioggia battente, gli era parso di udire qualcosa. Qualcosa di decisamente insolito.
    Sembrava qualcuno che stesse gridando, una sorta di richiamo malinconico, saturo di qualcosa che Jaden non seppe decifrare.
    Inizialmente l’aquazzone gli aveva inibito l’udito, ma non impiegò molto per capire di cosa si trattasse; la sua esperienza con la natura e i boschi gli avrebbe permesso anche di distinguere le specie d’uccelli che svolazzavano tra i rami soltanto ascoltando il battito delle loro ali.
    Fortunatamente l’intensità della pioggia calò, consentendogli di uscire allo scoperto e di dirigersi verso la fonte di quel lamento, di quella così insolita richiesta d’aiuto.
    Conosceva quel verso, fin troppo bene. Non bastava la pioggia a impedirgli di capire che qualcosa non andava.
    Dopo pochi minuti di cammino si accorse che il lamento, oltre che a farsi sempre più flebile, stava diventando sempre meno frequente. Quando fu certo di essere giunto a destinazione non trovò nient’altro che altri alberi, altri fossi e altri cespugli. Cercò di individuare tutte le sorgenti di movimento presenti nei paraggi, ma niente sembrava associarsi a quello che aveva udito. Fu un impercettibile sussulto della vegetazione alle sue spalle a farlo voltare, mettendolo faccia a faccia con una visione a dir poco straziante.
    Era un cacciatore si, ma il cuore gli balzò comunque in gola quando vide la zampa di un capriolo, inerte e afflosciata, sporgere da un groviglio di rami e spine. Il suo istinto gli suggerì di scattare verso il povero animale, ma la ragione lo convinse ad avanzare con cautela, a passi leggeri e misurati.
    La sua furia tentò di esplodere in un urlo di rabbia, non appena prese coscienza della cruda realtà: quella povera bestia era rimasta sepolta dai rovi, con una delle zampe posteriori intrappolata da una tagliola nascosta tra la folta vegetazione.
    Non si curò neanche degli aculei che spuntavano dalle centinaia di viticci, infilò le mani all’interno di quell’inferno tagliente e iniziò a scostarli e a strapparli con tutta la forza che aveva, con il cuore madido di tristezza. Tristezza per un mondo solamente triste, una furia accecante rivolta alla vigliaccheria e all’insensibilità di cui si poteva esser capaci.
    Quando finalmente riuscì a raggiungere il muso, scoprì che il capriolo si era del tutto abbandonato al suo destino, ma non si era ancora arreso: le sue palpebre erano quasi completamente chiuse, eppure continuava ad inalare aria con sempre più forza, sempre più vigore. Come volesse assaporare ogni singolo respiro, come se ognuno di essi potesse essere l’ultimo.
    Vide come l’animale si sforzò di spalancare gli occhi nel trovarselo davanti, e non gli sfuggì neanche il guizzo che mostrarono per un istante quasi impercettibile.
    Avevano mostrato spavento, una paura infinita che si era spenta in un attimo talmente fugace da non esser quasi esistito. Jaden restò immobile ad osservarlo, finché le sue mani non si diressero da sole verso quella maledetta tagliola e ne disattivarono il meccanismo, liberando l’arto straziato del capriolo, il quale venne attraversato da un forte spasmo lungo tutto il corpo.
    Alla vista delle condizioni del cucciolo a Jaden si strinse lo stomaco. Non riusciva ad alzarsi, nonostante ci stesse mettendo tutto il suo impegno. L’uomo gli tolse quanti più rovi di dosso che poteva, ma non sembrava servire a granché.
    In un ultimo, disperato tentativo il capriolo riuscì a mettersi in piedi seppur vibrando convulsamente, mentre teneva lo sguardo fisso su Jaden.
    Si voltò dalla parte opposta, avanzando di qualche passo, allontanandosi da quell’incubo devastante.
    Un passo, un altro, un altro ancora. Le zampe gli cedettero nuovamente, ma riuscì a non cadere e a non urtare con forza il suolo.
    Al cacciatore parve che si fosse disteso volontariamente, poggiando il muso sulle zampe anteriori distese di fronte a sé. E fu quando incrociò quello sguardo che scoprì di non aver mai saputo veramente nulla, che tutto quello che era certo di conoscere non era altro che un mero riflesso di ciò che la vita stessa era.
    Il capriolo lo stava supplicando di liberarlo, e non da una tagliola, né da un cespuglio di rovi.
    Jaden capì. Senza indugiare portò una mano alla cintura, dove teneva ancorato il fucile, e lo impugnò fra le mani.
    In quel momento la sua anima si unì a quella del capriolo, accogliendola in un morbido abbraccio di lacrime e di fratellanza. Era un suo compagno, un suo pari.
    Il colpo partì, squarciando il bosco, come una grande e lunga ferita che ne attraversò la superficie per chilometri e chilometri.
    Mentre riponeva il fucile e sollevava la testa, un soffice refolo di vento lo raggiunse e lo oltrepassò, portando con sé di più di qualche sentimento.
    Sul versante del monte d’innanzi a lui, quando volse lo sguardo all’orizzonte, vide la figura di una donna: un’anziana montanara, che stava carezzando la testa di un cucciolo di capriolo.
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    Forse vi ho depressi un po'? xD allora vi sgancio la famosissima Delirio in casa Potter, il nonsense più totale... ciò che nasce dall'ispirazione di cinque minuti in bagno










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    Delirio in casa Potter

    Harry se ne stava seduto tranquillamente in camera sua, osservando un’enorme pila di libri posta ordinatamente sulla sua amata scrivania in legno Beije, lustra come gli occhiali, che mai abbandonava.
    -Harry… non vuoi fare colazione?-
    Lily lo stava aspettando in cucina.
    -Certo mamma arrivo-
    Il ragazzo, rendendosi conto che le proprie ascelle avevano risentito della notte trascorsa dopo un paio di giorni senza doccia, si convinse che forse sarebbe stato meglio darsi una sciacquata.
    Toltosi i vestiti ad eccezione degli occhiali, si gettò frettolosamente in bagno, intenzionato a fare molto in fretta.
    -Harry ti sbrighi?-
    -Mamma aspetta un attimo!-
    Harry aprì la cannella dell’acqua e non riuscì a sentire l’ultima frase della madre, che stava sbraitando insulti e bestemmie incomprensibili che citavano il figlio, il ministro della magia e qualche divinità della mitologia norrena.
    -Che rottura quella donna-
    Finito di lavarsi, il maghetto scese le scale che lo dividevano dal piano inferiore per entrare tutto gasato e profumato in cucina, pregustando la colazione.
    Lyly lo stava aspettando con una padella tra le mani.
    -Quanto ci hai messoooooo! È un’ora che ti aspetto! Si sono freddate le uova!-
    La donna Brandì l’arma minacciosamente sopra la testa.
    -Expelliarmus!-
    Tirando fuori la bacchetta da non si sa dove, forse dagli occhiali, Harry riuscì a sventare la minaccia, che immediatamente mutò in un vero e proprio incubo.
    -Come osi… io…-
    Estratta a sua volta la bacchetta, Lily iniziò a scagliare incantesimi di ogni genere verso il figlio che si vide costretto a ricorrere a tutto ciò che aveva appreso ad Ogwars.
    -Reducto!-
    -Stupeficium!-
    -Protego!-
    -artis tempurus-
    -Bombarda maxima-(o cazzo)
    I due continuarono a scagliarsi incantesimi random fino a quando della cucina rimase integro ben poco.
    -Tutto bene quì?-
    Chiese James, apparso dal nulla, turbato da quel leggero frastuono.
    -tesoro… Harry… ma perché la prossima volta non andate a fare casino in giardino? Guarda che delirio…-
    Harry e la madre si scrutarono torvi, rilassandosi solo dopo quando James ebbe acceso la televisione, venendo distratti dal notiziario in onda tutti igiorni a quell’ora.
    -L’oscuro signore, soprannominato Voldepork dalle fanciulle di Londra che hanno avuto il piacere di sperimentare la magia di una notte trascorsa con lui, sembra aggirarsi di recente a Godric Sollow, in cerca di nuove passioni da esaudire-
    -A… Godric Sollow?-
    Harry osservò sconcertato lo schermo della TV.
    -A quanto pare…-
    Osservò James, leggermente invidioso dell’oscuro signore.
    -Non si lascia mai scovare, è come un’ombra intangibile, ma la cosa che sta suscitando più terrore tra la popolazione è che a quanto pare di questi tempi gli vadano bene pure i maschietti-
    Harry balzò in piedi allibito, urtando un vaso di ceramica, uno dei pochi oggetti rimasti integri nella stanza fino a quel momento. Il ragazzo uscì in fretta dal salotto-cucina e si fiondò in camera sua, chiudendosi a chiave.
    -Che gli prende James?-
    -Ba… valli a capire i giovani-
    Visibilmente preoccupato, Harry prese l’Iphone e chiamò Hermione in preda al panico.
    Gli squilli si succedevano monotamente al suo orecchio; si stava spazientendo a tal punto da trasformare il suo volto inuna maschera di nevrotismo con un paio di occhiali che sballettavano da una parte all’altra.
    -Ciao Harry..-
    -Hermione! Quanto ci hai messo a rispondere… ho un problema, un gravissimo problema-
    -Calmo… cos’è successo?-
    -Hai sentito il notiziario di stamattina su Sconciomagia?-
    -Si. È orribile vero? Ma perché sei così agitato? Non dirmi che hai paura di incontrarlo…-
    -E invece si! Vorrei vedere te al mio posto!-
    -Quante sciocchezze. Ma Harry… ti facevo più furbo. Ora se vuoi scusarmi devo finire di ackerare Adobe Acrobat e stò cercando di scaricare degli Eboock in Epub… c’è un nuovo volume…-
    -Si si ho capito tutto… Io sono nei guai!-
    -Senti Harry, se devi chiamarmi per queste stupidaggini per favore fallo in altri momenti, sono un attimino occupata. Ci sentiamo stasera…-
    -No aspetta…-
    Too too too…
    -Ma porco Nevil!-
    Fuori di se, tirò un calcio al comodino al suo fianco, che si ribaltò e cadde a terra con un frastuono tremendo; dai cassetti uscirono gli oggetti più disparati, zanne di basilisco, pacchetti di fazzoletti, carica batterie, riviste Entai, manette per il Boundage e quant’altro.
    Non fece in tempo a chinarsi per rimediare al danno inestimabile che aveva fatto che sua madre comparve sulla porta di camera.
    -Ei mamma… ma… avevo chiuso a chiave!-
    Lei agitò la bacchetta davanti al suo naso.
    -A…loho…mora. Fai tanto il duro, distruggi pietre filosofali, uccidi basilischi, gestisci un bordello alla tua età, e… non metti un incantesimo di protezione alla porta… ma ti limiti a chiuderla a chiave come un classico bimbo minchia pauroso della propria mammina adorata?-
    -Mamma… non c’è bisogno di solito di usare incantesimi di protezione in casa…-
    -Ne sei così sicuro…? Confringo!-
    -Ma te hai dei problemiiiiiiiiiiii!-
    Fortunatamente era solo frutto dell’umorismo devastante di Lily, che mostrò al figlio con cosa aveva finto di lanciare l’incantesimo: un mestolo da cucina, che forse poteva anche essere tendenzialmente più pericoloso dell’incantesimo distruttivo.
    -Non sono così matta… anche se questo te lo darei in testa volentieri. Perché sei scappato in quel modo? Non ti sarai preoccupato per l’oscuro signore? Non è interessato a famiglie come la nostra, lui cerca solo le purosangue-
    -Ti correggo, ora cerca anche… i! purosangue-
    -Quante storie… se dovesse farsi vivo ci penserò io a fargli vedere i sorci verdi-
    -Con un mestolo?-
    -Beh… chi sa, uno scontro richiede anche spirito d’improvvisazione-
    -Siamo messi bene…-
    Sempre più preoccupato, il mago guardò fuori dalla finestra della sua stanza, come se temesse di poter vedere il volto bianco e scheletrico di Voldepork attraverso la superfice vitrea.
    -Io torno giù. Tu rimetti questo casino-
    Disse, indicando il mucchio di oggetti sparsi sul pavimento.
    -Ok-
    Rispose, mentre prendeva la bacchetta distesa sul letto al suo fianco.
    Si avvicinò alla finestra, lasciando il caos davanti al comodino, e puntò la bacchetta all’esterno della camera.
    -Salvio Exia… Protego totalum… Repello Voldepork…-

    Mentre i bagliori del mattino si stagliavano dolci e rasserenanti sui tetti di Godric Sollow, due figure si muovevano silenziose e sinuose tra i vialetti del quartiere e fra le fronde degli alberi, che parevano volerli aiutare nel loro passo furtivo. I cappucci a celare loro il volto, le bacchette pronte a penetrare… le carni di un nemico con i più arcani incantesimi…(si come no)
    Il primo parlò:
    -Ci siamo…-
    L’altro, ghignando maleficamente sotto al copricapo e rivelando una voce fredda e sibilante, si limitò ad assentire.
    -Si…-
    I due continuarono a camminare per qualche altro metro, fino a quando non sitrovarono d'innanzi ad un nero cancello di pietra.
    -Quanto aspettavo questo momento-
    -Signore… Credo che sarebbeprudente mandare me per primo. Non si sa mai-
    -Per goderti tutto il pranzetto da solo? Neanche per sogno-
    -Non mipermetterei mai. Ma…-
    -Tranquillo Severus. Ce la faremo-
    -Voleva dire… Ce li faremo. Giusto?-
    L’altro emise una sottile risatina sommessa.
    -Certo che sei insaziabile-
    -Il mio pitone ha bisogno di una preda-
    -È là dentro. Non ci resta che entrare-
    Concluse, indicando con un dito bianco e ossuto l’innoqua casetta dei Potter.
    -Come facciamo ad entrare senzafarci sentire? Questo posto è pieno di protezioni magiche. Credo sappiano che siamo qui-
    -Esatto! Sapevo che sarestivenuto!-
    I due si voltarono verso la fonte del loro attimo di timore, notando Harry affacciato ad una finestra sul lato sinistro dell’abitazione, che teneva labacchetta puntata verso di loro, in segno di sfida.
    -Non riuscirete ad entrare-
    I due uomini sorrisero, prima di scomparire nel nulla, accompagnati da una lieve folata di vento.
    -Ma cosa…-
    Harry fu preso allasprovvista e non ebbe il tempo di rendersi conto del pericolo che se li ritrovò seduti sul letto.
    -Maledetti! Ma lei è…-
    Harry scrutò il volto del suo odiato professore di pozioni che intanto si era impossessato del suo cellulare e alla velocità del fulmine aveva iniziato a far scorrere tutte le immagini porno salvate sulla memoria SD.
    -La lasci! Sporco traditore!-
    Harry si lanciò verso Pyton, che però riuscì ad evitare il pugno del ragazzo spostandosi agilmente dall’altra parte del letto.
    -Calmo Herry… Calmo-
    Harry si pietrificò all’udire la voce dell’altro. Si era quasi dimenticato che nella sua stanza sitrovava il suo più grande incubo.
    -Tu! Sei solo un…-
    L’oscuro signore scattò in piedi, ergendosi solennemente di fronte a lui.
    -Avanti… dillo. Coraggio Harry! Di che sono un figo assurdo… che ho il pettorale soave e che non vedi l’ora di metterti allaprova con me-
    -Sparisci sporco verme!-
    L’altro si avvicinò con cautela, curvando le labbra in un sorriso maligno e perverso.
    -Vattene!-
    Harry indietreggiò di scatto, battendo una micidiale testata sulla mensola alle sue spalle. Chiaramente gli occhiali non caddero, questo mi pareva scontato.
    -Non fare il duro con me... Harry Potter. Non sei nelle condizioni di poterlo fare-
    Un tonfo si propagò nelle orecchie dei presenti.
    -Ma io si! NudatumExuere!-
    Lily era comparsa nuovamente sulla soglia, brandendo uno scopino e la bacchetta, dalla quale saettò unincantesimo che spogliò Voldepork dagli abiti che lo coprivano, lasciandolo nudo, in piedi con il volto trasformato in unamaschera di vergogna. Vergogna che si trasformò in un’ira furente e vendicativa,che si manifestò in un urloagghiacciante, che esternò tutto il suo essere, che al mercato mio padre comprò. Raccolse la bacchetta con un movimento tanto fulmineo da lasciar dubitare che fosse veramente esistito e la puntò contro Lily.
    -Tettonum!-
    -Attenta mamma!-
    Un getto di luce rossa scaturì dalla punta della bacchetta, per schizzare contro il petto di Lily, che si gonfiò vistosamente.
    -Wow! Niente male però… grazie-
    L’osservazione della donna non fece altro che far infuriare ulteriormente Voldepork, il quale, in piedi nellastanza, completamente nudo con due bacchette puntate contro Lily,(una delle quali lentamente aumentava di dimensioni) non si era reso conto che Pyton stava osservando minuziosamente il suo esaltante fondoschiena.
    -Pyton! Che cazzo fai!-
    -M… mi scusi ma lei… è così…-
    -Basta chiacchere! Togli di mezzo quella mezzosangue mentre mi rivesto!-
    Harry scrutava il teso susseguirsi degli eventi, immaginando con orrore la scena tremenda di un panino nonché cheseburger tra Pyton Voldepork e sua madre. Lily intanto si era avvicinata all’uomo.
    -Mamma mia che puzza di sterco equino… ma da quanto non tilavi? Sei peggio di Harry. Altro che signore, Dovrebbero chiamarti il fetore oscuro!-
    Esclamò, agitando la bacchetta nella sua direzione. Le gambe di Voldepork iniziarono a muoversi freneticamente, alternando passi di danza classica a piroette di Flamenco.
    -Come osi sudicia mezzosangue! Smettila subito!-
    Pyton, deliziando lo sguardo con lo spettacolo del suo signore nudo che ballava con il pene sventolante a destra e a manca, non potette fare altro che restare imbambolato a godersi la scena.
    -Ma è possibile che zio James non venga mai invitato a queste festicciole?-
    Ne Harry ne Lily fecero intempo a voltarsi che James si era gettato nel bel mezzo della mischia.
    ___________________

    ahahah oddio che vergogna... xD ovviamente non si vada oltre l'aspetto comico di sto sclero, era per farsi due risate (lo so non fa neanche ridere ma era per sdrammatizzare un pochino).
    E ora sarà meglio che chiudo la paginetta delle Aevolate, in seguito posterò qualcos'altro!
    Penso... :D
     
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  2. Ickym
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    "Lo specchio dell'anima" e
    "E lo guardai negli occhi" sono quelle che mi son piaciute di più. Anche le altre sono carine, ma sono quelle che mi hanno colpito di più. E poi "E lo guardai negli occhi" mi é sembrato una metafora per un padre di famiglia che "lotta" per mantenere la famiglia in stile "Luigi delle Bicocche" di Caparezza. :D
     
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    Il drago azzurro che puzza di pesce

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    Esatto, quello sarebbe il senso Ickym... mi fa piacere che si sia compreso. Carino il paragone con Luigi delle bicocche, in effetti ci sta tutto xD
    gracias!
     
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    A me è piaciuto il primo racconto, Lo specchio dell'anima. Non è poi così semplice come dici tu, si possono scindere diversi significati importanti da esso ^^
     
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3 replies since 23/4/2016, 00:51   54 views
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