Il re Gilgamesh

Leggende mesopotamiche

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    L’Epopea di Gilgamesh è un antichissimo ciclo di poemi che ruota attorno al quinto re di Uruk, in Mesopotamia. Il racconto in forma orale dei poemi risale al terzo millennio a.C., mentre l’elaborazione scritta è quella voluta da Assurbanipal, ultimo re dell’impero degli Assiri nel VII secolo, incisa su 12 tavolette d'argilla in linguaggio cuneiforme.

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    Gilgamesh (D.Gilgamesh, la D rappresentava una figura importante e legata alla sfera divina) fu il più potente re di Uruk, la più grande delle città mesopotamiche. Egli fece erigere alte e possenti mura per difenderla e templi per onorare le divinità, regnando con severità e onore.
    Il poema inizia con l'arrivo a Uruk di un'ambasceria da parte della città di Kiš, con l'obiettivo di imporre l'irrigazione dell'area meridionale della Mesopotamia. Gilgamešh in risposta convocò l'assemblea degli anziani e, successivamente, quella dei giovani guerrieri, per decidere se sottomettersi al sovrano nemico Agga oppure se provocare la guerra.
    Gli anziani votarono per la pace, mentre i giovani guerrieri reclamarono la guerra e l'indipendenza della città di Uruk. Gilgamesh, essendo un giovinetto intraprendente, ovviamente scelse le botte.
    Un consigliere di Agga, durante la guerra, confessò di temere per la sorte del suo popolo, e incitò il sovrano a ritirare le offensive ed arrendersi. Agga, convinto che quello fosse Gilgamesh travestito per ingannarli, si preparò a colpirlo. In quell'esatto momento però il re dei re, semideo dei semidei, convinto fra i convinti, uscì dal proprio palazzo per affrontare le armate divine attorniato da un alone splendente e divino.
    Al solo vederlo, l'esercito nemico si inginocchiò e tutti deposero le armi, poiché avevano capito che sarebbe bastato Gilgamesh da solo per sbaragliare tutti gli avversari. La sua potenza era indiscutibile, e si manifestava tramite un'aura d'energia che poneva in soggezione chiunque lo avvicinasse.

    Figlio del precedente re Lugalbanda (divinizzato post mortem e asceso a dio) e di Ninsun (dea della fertilità figlia del padre celeste degli dei An), Gilgamesh nacque due terzi divinità e un terzo mortale.
    Fu un gran prepotente e un birbante con le fanciulle, e fin da giovane mostrò subito la sua temperanza e la vigoria delle sue braccia. Il popolo iniziò ad essere stanco del comportamento del sovrano: man mano che il tempo passava i figli perivano durante le esercitazioni di guerra e ogni giovane donna diventava amante del re, il quale sfruttava a pieno lo Ius primae Noctis.
    Esso rappresentava il "diritto della prima notte" e dava la possibilità ad un signore feudale, in occasione del matrimonio di un proprio servo della gleba, il diritto di poter trascorrere la prima notte di nozze con la sposa, rubandogliela per svariate acrobazie zozze fra le coperte.
    Gli abitanti di Uruk cominciarono ad invocare l'aiuto degli dei, e gli dei decisero di creare un uomo di nome Enkidu dal fango e dall'argilla che sarebbe divenuto amico e nemesi di Gilgamesh.

    Enkidu crebbe e visse con gli animali, nel mondo selvaggio dei boschi e delle steppe, ma la sua presenza spaventava i cacciatori che si vedevano i greggi dispersi e le trappole distrutte. Era agilissimo, veloce nella corsa e forte nel colpire, e soprattutto era completamente indomabile.
    Gilgamesh, venuto a sapere della sua esistenza, mandò una sacerdotessa meretrice di nome Sabate alla radura dove sempre Enkidu si recava e qui la donna si diede da fare per "civilizzarlo". Il selvaggio le saltò addosso, la stuprò nelle peggio maniere e lei lo lasciò fare per sette giorni e sette notti.
    Ancora viva, non si sa come, ella cominciò ad insegnargli le buone maniere e le usanze degli umani, invitandolo a nutrirsi di pane e vino e non più di foglie. Enkidu divenne un brav'uomo e soprattutto un ottimo marito, ma gli animali cominciarono a ripudiarlo. Le gazzelle e le linci, che prima gli erano amiche, fuggivano nel vederlo e così facevano gli uccelli, che da lui si erano sempre lasciati avvicinare.
    A quel punto si era ormai del tutto unito alla civiltà, e anzi aveva cominciato ad aiutare i pastori e i cacciatori a sopravvivere; quando comprese della crudeltà di Gilgamesh, non molto inferiore ad una tirannia, volle sfidarlo a duello proprio mentre quest'ultimo stava per intrattenersi in un'altra nottata all'insegna delle porcheggiate.
    L’arrivo di Enkidu venne presagito da Gilgamesh nel vedere un'ascia bipenne che gli calava sulla testa, in un sogno che il re raccontò a sua madre Ninsun che lo interpreta come la venuta di un grande alleato.

    Quando Enkidu giunse alla dimora della donna Gilgamesh era lì tutto pronto a pregustarsi una nottatina decisamente professionale, e il duello iniziò non appena i due incrociarono lo sguardo.
    Colpi su colpi, fendenti su fendenti, un casino inenarrabile mentre la povera ragazza rimaneva lì ad aspettare che questi se le dessero di brutto. Enkidu impedì al re di varcare la soglia per svariati giorni, e ovviamente la donna doveva starsene li poveretta ad sperare nella vittoria di Enkidu, rinchiusa nella sua casetta. Spero avesse abbastanza scorte :paninozzo:
    Enkidu però fu il primo a piegare il ginocchio quel giorno, e la sfida venne vinta da Gilgamesh. Questi però aveva riconosciuto l'enorme valore del suo avversario, e lo accolse come compagno vedendo in lui la sua stessa potenza divina.

    Enkidu riuscì a cambiare Gilgamesh e lo rese un sovrano buono e giusto, che teneva ai sudditi quanto alle donne e lasciava loro il diritto di decidere se giacere con lui per una notte o meno.
    I due iniziarono ben presto a farsi valere, probabilmente anche come amanti non esattamente etero, e a farsi filmini mentali sull'eternità. Nessuno dei due voleva morire, poiché dicevano che "non si può gioire delle vittorie ottenute in vita se poi la fine che ci attende è la stessa".
    Decisero quindi di partire per la Foresta dei Cedri, confinante con un territorio vulcanico piuttosto lontano da Uruk, per abbattere gli alberi ed innalzare un grande tempio che potesse far ricordare per sempre il nome di Gilgamesh anche oltre la morte.
    Per portare a termine tale folle la missione avrebbero dovuto prima combattere il male che abitava quelle terre, rappresentato dal gigante Humbaba. Alla notizia della partenza i saggi si spaventarono molto per la vita del loro re, in quanto si diceva Humbaba avesse armi che non potevano essere sconfitte.
    Ninsun chiese ad Enkidu di vegliare sul proprio figlio e gli donò un amuleto propiziatorio, ma il più grande aiuto giunse dal dio del sole Shamash, che fece forgiare dagli artigiani di Uruk armi invincibili.
    Gilgamesh e Enkidu si misero dunque in cammino, o meglio in corsa considerando che si diceva compiessero il percorso di un mese e mezzo in tre giorni, e arrivarono ai piedi del monte del Libano su cui risiedeva Ishtar, terribile e ambigua divinità dell’amore e della guerra.
    Il re fu avvicinato più volte da un demone della sabbia che indusse nella sua mente strani sogni premonitori, i quali vennero tutti interpretati da Enkidu come segni positivi di vittoria. Il primo di questi, quello di una montagna che li schiacciava come fossero formiche e in cui vengono estratti da sotto le macerie da una figura angelica.
    Non è chiaro perché in questo mito gli incubi più atroci fossero positivi, ma va beh... :yea:

    Fu così che, sminuzzando alberelli a destra e a manca, si trovarono di fronte a Humbaba, il mostruoso bestione che rappresentava lo spirito naturale guardiano della foresta. Il suo volto era tanto brutto da ricordare le budella usate per la divinazione; aveva zampe, ali e criniera di leone, artigli un po' ovunque su tutto il corpo, ed era capace di scatenare fiamme, venti e folgori.
    Il gigante riuscì a mettere in ginocchio i due eroi, legnandoli ben bene con tronchi di cedro in pieno stile ercole appena strappati dal suolo, ma Shamash fortunatamente ascoltò le preghiere che Gilgamesh gli rivolse e cominciò a scatenare i 13 venti su Umbaba. il vento del sud, il vento del nord, il vento dell'est, il vento dell'ovest, il turbine, la tempesta, l'uragano, il vento cattivo, il vento-Simurru, il vento-Asakku degli inferi, il vento gelido, il vento di pioggia e il mulinello si abbatterono su di lui impedendogli di avanzare o di indietreggiare.
    Così i due guerrieri poterono affondare i loro colpi mortali; la spada del re dal peso di due tonnellate affettò un ginocchio al gigante, mentre Enkidu abbatté la sua ascia sul cranio del bestione.
    Il mostro supplicò pietà, e Gilgamesh stava quasi per cedere alle sue parole, ma Enkidu lo convinse a non farsi ingannare e vuole la sua morte.

    Tornato a casa, Gilgamesh riprese quindi il suo ruolo di sovrano e la dea Ishtar, dinnanzi alla sua bellezza e avvenenza,, se ne innamorò e decise di sposarlo. L'eroe però, consapevole di come la dea fosse abituata a far soffrire e abbandonare i suoi amanti dopo averli trasformati in bestie o averli proprio uccisi, la rifiutò seccamente perché ci teneva alla pellaccia.
    Ishtar, furiosa, chiese allora a suo padre An di mandare il Toro del Cielo per creare distruzione e confusione tra il mondo dei viventi a punire Gilgamesh, oppure lei avrebbes catenato gli inferi aprendo le porte del regno dei morti per riversare il caos e il delirio sulle terre di tutto il mondo.
    Preoccupato della catastrofe che si sarebbe potuta venir a creare, An è costretto a inviare il Toro sulla terra. Questo era fatto di pietre preziose, lapislazzuli e altri materiali d'incredibile rarità, ed aveva una potenza enorme. Provocò terremoti, morte e siccità ovunque passava, finché non si trovò di fronte a Enkidu e Gilgamesh.
    Il re combatté contro il Toro e lo uccise, e in barba a tutte le divinità sfruttò pure i materiali di cui l'animale era composto per arricchire il suo popolo e gli artigiani di Uruk.
    Scagliò poi ciò che ne rimaneva verso il cielo, inveendo contro Ishtar che se ne stava su una nuvoletta dall'alto, imbufalita ancor più di prima e stizzita dal fatto che quegli individui si fossero mostrati superiori agli dei.

    Enkidu la notte successiva fece un sogno funesto: poiché erano stati uccisi il Toro del cielo e il gigante Humbaba, uno tra loro due sarebbe dovuto morire.
    Enkidu cadde quindi preda di una lunga malattia. Gilgamesh vegliò e pianse l’amico, il cui destino fu quello di morire vilmente a letto e non con onore in battaglia. Alla sua morte, Gilgamesh lanciò forti lamenti e tributò all’amico grandi onori, sconvolto poiché non aveva mai visto qualcuno morire con così tanto rammarico e desolazione sul volto.

    Spaventato a quel punto dalla sua mortalità, Gilgamesh decise di mettersi in viaggio di nuovo per cercare Utanapishtim, un uomo che essendo scampato al diluvio aveva ricevuto dagli dei la vita eterna e che abitava nella terra di Dilmun nel giardino del Sole.
    Dopo un lungo viaggio fatto di battaglie, bestie e bestioni sgominati, durante cui l'eroe fu in grado anche di sconfiggere contemporaneamente cento giganti che cercavano di sbarrargli il passo su una spiaggia, arrivò alla montagna posta a guardia del sole che sorge e che cala, protetta da potenti Uomini-Scorpioni.
    Appena giunto a destinazione si rivolse all’Uomo-Scorpione di guardia e gli spiegò di star cercando l'anziano Utanapishtim; venne quindi fatto passare, nonostante ai mortali non fosse normalmente concesso varcare quei cancelli. Gilgamesh attraversò la montagna, immerso in un’oscurità assoluta e sentieri tetri e tortuosi. Arrivò infine al termine del percorso, alla terra del Sole. Per raggiungere Utanapishtim doveva attraversare l’Oceano, impresa che nessun uomo, fin dai tempi più antichi, era mai riuscito a compiere.
    Consapevole della sua impotenza e dei suoi limiti umani, in preda alla rabbia Gilgamesh distrusse il sartiame di un battello che si trovava lì sulla riva. Arrivò quindi Urshanabi, barcaiolo di Utanapishtim, che lo rimproverò per aver distrutto la sola cosa che poteva aiutarlo ad attraversare l’Oceano. Sbuffando, lo aiutò a costruire un altro battello con gli alberi della foresta e lo condusse a Dilmun.

    Attraversato il grande mare, Gilgamesh raccontò quindi a Utanapishtim di come un profondo dolore lo avesse sconvolto alla morte di Enkidu e gli chiese di svelargli il segreto della vita eterna.
    Comincia così il racconto del diluvio:
    le acque furono scatenate dagli dei, a causa del fatto che le terre si fossero sovrappopolate e gli strepiti degli uomini avevano preso a giungere fino agli dei.
    Utanapishtim, l'uomo più giusto, venne però avvertito dagli dei stessi che gli dissero di distruggere la propria dimora e di costruire una nave, o un'arca se preferite. Su di essa avrebbe fatto salire uomini e animali; all’arrivo del diluvio, quando la pioggia prese ad imperversare per sei giorni e sei notti, avrebbe funto da riparo per i sopravvissuti.
    La nave si incagliò nella cima di una montagna che spuntava dal mare, dove restò altri sei giorni. Al settimo, Utanapishtim lasciò libera una colomba, ma non trovando dove riposarsi l’uccello tornò indietro.
    Inviò poi una rondine, ma con lo stesso risultato. Solo quando lasciò libero un corvo questi non tornò, indicando così che le acque si erano ritirate. L'uomo tributò grandi offerte agli dei, che concessero a lui e a sua moglie di vivere in eterno.

    Al termine del racconto l'anziano confidò a Gilgamesh che per ottenere la vita eterna sarebbe dovuto restare sveglio per sei giorni e sei notti, affermando tuttavia che dormire è umano e nessun uomo, per quanto forte, può resistere a lungo senza riposo.
    Il re era convinto di riuscirci senza problemi, ma dopo neanche la prima notte crollò nel sonno e una forte nebbia calò sui suoi occhi. Dormì quindi per sei giorni e sei notti, al risveglio si disperò dopo aver riconosciuto la propria debolezza. La moglie di Utanapishtim aveva messo accanto a lui delle focacce, che dopo tutto quel tempo si erano ammuffite e gli avevano così dimostrato tutta la sua mortalità e i suoi limiti umani.
    Al momento della partenza però Utanapishtim gli svelò un ulteriore segreto: se avesse colto dal fondo del mare una particolare pianta divina di natura mistica e se ne fosse nutrito, avrebbe potuto recuperare la giovinezza perduta in quegli anni. Gilgamesh durante il viaggio di ritorno riuscì a recuperarla, e decise di portarla a Uruk per donarla alla propria gente.
    Si fermò a nuotare in uno stagno, e con furbizia lasciò le erbe incustodite accanto alle proprie vesti, come un perfetto coglionazzo di turno. Non poteva proprio fare a meno di lavarsi le ascelle.
    In effetti con tutte quelle corse, quei viaggi e quelle battaglie, un bagnetto ci stava :sclero:
    Un serpente, sentendo il dolce odore del fiore, mentre Gilgamesh era distratto a scialacquarsi le intimità lo prese e se lo pappò.
    Il re cercò di correre fuori dall'acqua per fermare il serpente, ma questo ringiovanì all'istante facendo la muta e riuscì fuggire.

    Gilgamesh fu quindi costretto a riconoscere il potere del destino e la sua essenza mortale. Tornò a Uruk, dove concluse la sua esistenza di uomo e, quando giunse il suo momento, morì come un qualunque mortale. Verrà tuttavia ricordato come il primo eroe e il primo grande semidio, l'origine e il preludio di ogni mitologia.

    Edited by Aesingr - 20/10/2018, 19:31
     
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    Gli abissi dell'amigdala, dove gli orrori sono tali che pure le mura urlano folli.

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    Uhhhhhh!!! Primordio dell'epicità!
     
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