Doppelgänger, cosa nasconde la tua ombra?

Le sue definizioni nel folklore

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    Doppelgänger





    Il termine Doppelgänger indica, in lingua tedesca, il sosia, il doppio, la dualità dell’essere: etimologicamente, il vocabolo è composto da doppel, che significa "doppio", e Gänger, che vuol dire “colui che se ne va”; comunemente il vocabolo è identificato con la figura del “gemello cattivo”, se non anche come l’infausto presagio di morte.
    È proprio da questo legame tra sosia e morte che Otto Rank sviluppò la sua analisi nell’opera Il Doppio (Der Doppelgänger, pubblicato nel 1914 sulla rivista “Imago”).
    Egli ci fornisce un ottimo sunto di come, psicanalisi a parte, l’archetipo del doppio sia largamente diffuso nel folklore, riportandone vari esempi.


    In Austria, Germania e ex-Jugoslavia si crede che chi, la sera di San Silvestro o della Vigilia di Natale, all’accendersi delle luci non proietta l’ombra sulla parete, o la proietta ma senza testa, morirà entro l’anno. La stessa credenza la ritroviamo tra gli Ebrei, solo che deve avvenire nella settima notte di Pentecoste. In alcuni paesi tedeschi si crede che osserva inoltre che sia vicino alla morte chi calpesta la sua ombra o chi, alla Calderola, vede la sua ombra doppia.
    Se inizialmente poteva essere uno spirito protettore e presto diventato uno spettro persecutore. Potremmo parlare di sacralità dell’ombra dal momento che molte popolazioni primitive ritenevano che qualsiasi ferita inflitta all’ombra colpisse anche l’uomo che la possedeva. Come riportato da Pradel: “Chi non proietta ombra, muore; chi ha un’ombra piccola o non nitida, è ammalato; un’ombra netta è indice di salute.” Alcuni abitanti delle isole dell’equatore evitavano di uscire di casa a mezzogiorno, perché a quell’ora l’ombra scompariva e temevano così di perdere l’anima.


    Si credeva inoltre, secondo alcuni primitivi, che se il figlio assomigliava troppo al padre, quest’ultimo sarebbe morto presto dal momento il bimbo aveva attirato a sé l’immagine e l’ombra. Ugual valore aveva il nome. Questo elemento si è mantenuto anche nella cultura europea, per cui, se nella stessa famiglia c’erano due bambini omonimi, uno era destinato a morire presto.
    Esiste un mito di Tahiti secondo cui la dea Hina rimase incinta perché su di lei era caduto l’ombra di un albero del pane che il padre Ta'aroa aveva scrollato. E dal momento che ogni mito fonda verità, ecco che alcuni indigeni in Australia sudorientale si separavano se l’ombra di un uomo cadeva sulla suocera. Nell’India centrale, per il timore della fecondità, le donne incinte evitano di passare sull’ombra di un uomo perché poi il bimbo potrebbe rassomigliarvi.
    È chiaro come per molti popoli “anima” e “ombra” vengano quindi indicati con la stessa parola. Gli indigeni della Tasmania usano lo stesso termine, nella lingua quichè usano la parola nahib, il termine neja in arawachi significa “ombra”, “anima”, “immagine”; gli abiponi usano solo loàkal per indicare l’ombra, l’anima, l’eco, l’immagine…I basuti definiscono lo spirito che sopravvive alla morte suiti o “ombra” (essi temono che un coccodrillo possa catturare un uomo che passeggia sulla riva di un fiume afferrandone il riflesso nell’acqua).


    Lo stesso vale anche per i massim della Nuova Guinea britannica, i kai della Nuova Guinea tedesca, e nella Melanesia del nord. Anche secondo Omero l’uomo aveva una duplice presenza sulla terra, una nell’apparizione percettibile, l’altra nella sua immagine invisibile che si libera solo nella morte, la psiche. Per cui nell’uomo vivente, in cui l’anima è integra, abita un ospite sconosciuto che ha il suo regno nel mondo dei sogni. Se l’io cosciente dorme, il suo Doppio si risveglia e agisce. Anche l’εἴδωλον (immagine), che è una ripetizione dell’io visibile e costituisce un secondo io è, nel suo significato originario, il Genio dei Romani, la Fravauli dei Persiani, il Ka degli Egizi. Dal momento che anima e ombra sono la stessa cosa, l’anima dei defunti non proietta ombra. Si riteneva che non soltanto le anime non avessero l’ombra, ma anche i loro simili, gli elfi, i demoni, i fantasmi e gli stregoni. Anche il diavolo non ha ombra e per questo desidera quella degli uomini. Chi ha ceduto la propria anima, resta dunque senza ombra.
    Altre leggende mostrano come nei paesi tedeschi non si possa mettere un cadavere di fronte ad uno specchio; secondo una superstizione dalmata, chi si guarda in uno specchio, quando in casa c’è un morto, ha vita molto breve. Da qui l’abitudine fortemente diffusa (in Germania, Francia, tra gli Ebrei, i Lituani e altri) di velare gli specchi quando vi è un cadavere in casa, in modo tale da impedire che la sua anima rimanga nell’abitazione. In Prussia si vietava di specchiarsi di notte per paura di perdere il proprio riflesso e di veder apparire il diavolo. In Germania se uno specchio si rompe non porta semplicemente sfortuna ma è bensì presagio di morte.
    Gli zulù non guardano nelle acque della palude perché potrebbe esserci un mostro che si approprierebbe del loro riflesso uccidendoli. Anche i Greci vietavano di riflettersi in acqua. Chi si impadronisce di un’immagine di una persona, può danneggiarla o annientarla. Per questo vi è il timore della propria immagine, perché si ritiene che l’anima si trovi in tutte le raffigurazioni della persona umana e sarebbe meglio evitare di farsi fare ritratti (in Germania, in Grecia, in Russia, in Albania, in Inghilterra e in Scozia).
    Ovviamente questa ricca tradizione folkloristica la si può ritrovare in un sacco di opere e miti ben più conosciuti: come Narciso o Dorian (in fondo non è stata proprio la loro immagine a provocarne la morte?). Secondo una visione psicanalitica il Doppio non sarebbe altro che un modo, narcisistico, di esorcizzare la morte. Amo troppo il mio Io per poterlo nuocere, perciò creo un suo alter ego che però riconosco come estraneo a me e la cui morte non mi tange minimamente. Tuttavia, essendo il Doppio parte di me, che io stesso ho creato, nuocendogli non faccio che nuocere me stesso (paradosso del suicida). Altri scorci sull’argomento, che la letteratura ci offre sono: Elena di Euripide, Il Fu Mattia Pascal di Pirandello, Lo strano caso del Dr Jeckill e Mr Hyde di Stevenson, Il Sosia di Dostovjeskj, scritti di Poe e Maupassant, etc…)
    Particolarmente esilarante è la commedia di Plauto l'Anfitrione. La storia, ormai risaputa, si verifica quando Giove vuole congiungersi con Alcmena. A reggergli il gioco chiama Mercurio che vestirà i panni del servo del re...appunto lo sventurato Sosia. Il lato quasi tragicomico è l'incontro tra i due Sosia (quello vero, che doveva avvisare del ritorno a casa del padrone, e quello falso, che faceva da palo). Dallo scontro il vero Sosia ne uscirà dopo averne prese e nel tentativo di spiegare al re l'accaduto non farà altro che causare ancor più confusione: "quis te verberavit?" (chi ti ha picchiato?) "egomet memet, qui nunc sum domi" (io stesso ho picchiato me stesso, io che ora sono a casa)

     
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