Malleus Maleficarum

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    È il 1486 quando due frati domenicani Jacob Sprenger e Heinrich Institor, pubblicheranno il Malleus Maleficarum, che diventerà il testo ufficiale dell'Inquisizione sulla stregoneria. Per tre secoli quel testo - un vero e proprio manuale per l'inquisitore in cui si illustrano minuziosamente i malefici operati dalle streghe, i mezzi per riconoscerle, i metodi da applicare per gli interrogatori e le pratiche di tortura - uniformerà il rito di centinaia di processi, in cui andranno in scena le più grottesche superstizioni e la sessuofobia degli accusatori. Un dramma a cui era impossibile sottrarsi, una farsa che non prevedeva che la confessione, perché anche la negazione della stregoneria non era che un'ammissione di eresia. E a cui, spesso, si poteva sfuggire solo salendo sul rogo.

    L'IMPIANTO GENERALE DEL MALLEUS MALEFICARUM
    Il "Malleus" si compone di tre parti, interrelate a quelle che sono considerate le tre realtà che concorrono all'effetto malefico: il diavolo, la strega o lo stregone e, infine, il permesso divino.
    LA PRIMA PARTE, che riguarda i fenomeni di stregoneria, colpisce per la sua stretta attinenza con la preoccupazione corrente, evidenziata dal papa Innocenzo Ottavo, riguardante la fecondità e la possibilità, da parte dei diavoli e delle streghe, di impedire amplessi leciti o addirittura di evirare gli uomini.
    LA SECONDA PARTE, casistica, descrive in che modo si possono manifestare i sortilegi delle 'malefiche' e con quali mezzi è possibile combattere le loro nefandezze. Molti esempi citati provengono da Nider e da altri inquisitori tedeschi o austriaci.
    Sprenger e Institor sembrano convinti che tutte le streghe e gli adepti facciano parte di sette dedite al culto del demonio. In questo senso 'storicizzano' il fenomeno, partendo anche da credenze e superstizioni che erano nell'aria, o da 'racconti' fantastici di molti accusati e 'succubi'. Insomma: venne concepita una rappresentazione diabolica a canovaccio fisso, su un palcoscenico drammatico di torture e di morte. Dovendo, tuttavia, ammettere che nulla potevano contro l'Inquisizione le persone imputate di magia, stregoneria, o commerci diabolici.
    LA TERZA PARTE, forse più conosciuta e utilizzata dai 'difensori della fede', riguarda la procedura e le fasi consequenziali del processo.
    In questa ultima sezione è evidenziato il meccanismo penale che, partendo da accuse spesso anonime o anodine, porta direttamente l'imputato di fronte al giudice. A volte è sufficiente il 'rumore pubblico' a trasformare una calunnia in prova. Il giudice ha pieni poteri e il suo compito consiste nel chiudere il caso il più rapidamente possibile.
    Mediante la costante 'deduzione tautologica' e la 'maieutica del peccato', che non arretrano di fronte alla tortura e alla negazione di ogni diritto dell'imputato, si 'estrae' dall'inquisito 'la verità' enunciata a priori.
    Il più delle volte la condanna si risolve nella pena di morte, senza transitare attraverso l'ordalia, il giudizio di Dio, considerato 'ingannevole' poiché inficiabile dall'arte diabolica.
    Di seguito, i passaggi più salienti dell’opera.

    PARTE II
    La divinazione e la magia nera non vennero 'inventate' - secondo il "Malleus" - nella prima età del mondo, dal momento che non c'era ancora idolatria, «essendo troppo vicino il ricordo della creazione del mondo» come dice san Tommaso. Secondo Vincenzo di Beauvais, autore de "Lo specchio", l'inventore della magia nera fu Zaratustra/Zoroastro (ovvero Cam, figlio di Noè). Egli fondò la religione iranica antica, su base monistica e manichea, ispirato dal dio Mazda, e influenzò il buddismo e il giainismo in India, nel 600 a.C.
    Da allora la magia, rafforzata da Nembrotte e dall'ingresso degli uomini nella seconda età del mondo, provocò il primo genere di superstizione: l'idolatria. Seguita a un palmo dalla divinazione e, in terzo luogo, dai riti demoniaci.
    Il Maligno, che non esisteva nella prima età del mondo, ancora considerata 'edenica', appare nella seconda età per volere divino. In particolare l'idolatria, la superstizione, la divinazione trigenica e l'evocazione demoniaca infettano la realtà umana. La fine dell'universo numinoso e l'inizio della nuova famigerata alleanza fra demoni e umani sancì, secondo il "Malleus", l'apparizione del mondo dolente e devastato (ma non addebitabile a Dio), che ciascuno vede e sperimenta. Una nuova cacciata dal Paradiso. Ecco il groviglio di serpi che diventerà la stregoneria! Tra Riforma, Controriforma e propaggini dell'era posteriore.
    La grande eclisse del 1485 aveva terrorizzato uomini comuni, contadini, potenti, nazioni ed ecclesiastici. Aveva stretto il mondo occidentale in una tenaglia di gelo. Ogni delitto, catastrofe, timore, malattia, miseria, patiti dall'essere umano indifeso, strisciante, più caduco ed effimero di una branca primaverile, ha vibrazioni misteriche nel mondo oscuro, 'che non esiste a detrimento, bensì a maggior gloria di Dio'. Arbitro assoluto nella palude del mondo - in cui ogni passo falso potrebbe fare scivolare nelle sabbie mobili dell'errore o scaraventare nella geenna dell'eresia - è l'inquisitore, inviato di Dio in terra.

    COME SI MANIFESTA LA STREGA
    Una volta dimostrata con certezza, secondo il protocollo del "Malleus", l'esistenza della stregoneria, risulta indispensabile individuare lo scenario del 'commercio diabolico.
    Satana e i suoi affiliati usano raduni e accoppiamenti infernali per trasformare eretici e non credenti in streghe e stregoni. La credenza popolare è diventata dogma di fede, e l'immaginario viene codificato in atti e peccati contrari alla vera fede e alla Chiesa.
    «Adesso bisogna affrontare le cerimonie delle streghe e il modo in cui compiono le loro opere e in primo luogo quello che fanno di se stesse e della loro persona. Il trasferimento da un luogo all'altro è una delle loro azioni più salienti, come il fatto di abbandonarsi alle sporcizie carnali con i diavoli incubi; tratteremo ciascuno di questi punti, cominciando dal trasporto del corpo. A questo proposito è opportuno notare che questo trasporto, come si è detto più volte, costituisce problema, almeno secondo un certo filone della Scrittura. Si veda ad esempio il Canone, al punto in cui si dice che non si può ammettere che alcune scellerate, pervertite da Satana e sedotte dalle illusioni e dai fantasmi del diavolo, credano e sostengano di andarsene nottetempo con la dea pagana Diana o con Erodiade e con una moltitudine innumerevole di altre donne, cavalcando certe bestie, percorrendo lunghe distanze nel silenzio della notte e obbedendo in tutto e per tutto a questa dea come a una padrona.
    Ci auguriamo che quanto abbiamo detto sia sufficiente a contraddire coloro i quali negano categoricamente questo genere di trasporti o tentano 'di affermare che avvengono solo con l'immaginazione e con la fantasia'».


    IL TEATRO DEMONIACO: sABBA ED ESBA
    «L'opinione che il volo delle streghe sia illusorio è stata confutata come eretica: è infatti contraria a quanto Dio permette alla potenza del diavolo, che può arrivare a cose anche più notevoli. Inoltre è contraria anche allo spirito della Scrittura e causa un danno intollerabile alla Santa Chiesa, in cui molte streghe, a causa di questa opinione pestilenziale, che amputa al braccio secolare del potere la capacità di punirle, sono state lasciate indisturbate. Ed esse sono aumentate così smisuratamente che ormai non è più possibile sradicarle.»
    La conferma ufficiale del sabba si ebbe in seguito alla confessione di alcune presunte streghe, torturate dopo la promulgazione della Bolla di Giovanni Ventiduesimo "Super illius specula", nel 1320. Il raduno, o tregenda, cui avrebbero partecipato diavoli e succubi, portò a una sequenza di processi e roghi, accesi fra Tolosa e Carcassonne.
    Che le streghe potessero volare con i poteri loro accordati dal diavolo e col permesso di Dio, fu decretato ufficialmente dal "Malleus", mentre il canonico Molitor asseriva che «le streghe volano solo in sogno» e che, dunque, il trasporto fisico dei corpi è solo opera del diavolo.
    Il sabba era una forma di "rendez-vous" comunitario cui potevano partecipare anche non affiliati e bambini. Mentre l'incontro intimo fra iniziati venne definito 'esba'. La distinzione fondamentale fra riti essoterici, manifesti, ed esoterici, iniziatici, trovò riscontro nello specchio oscuro della stregoneria:
    «Per quanto riguarda le modalità del trasferimento, esso avviene così: le streghe, per istruzione del diavolo, fanno un unguento con le membra dei bambini, sopra tutto di quelli uccisi da loro prima del battesimo, spalmano di questo unguento una seggiola o un pezzo di legno e fatto questo si levano per aria sia di giorno sia di notte, visibilmente o anche, se vogliono, invisibilmente, perché il diavolo può occultare un corpo frapponendone un altro, come si è detto nella prima parte, quando si parlava dell'apparizione prodigiosa per opera del diavolo. In verità, benché il diavolo si serva di questo unguento per lo più con il fine di privare i bambini della grazia battesimale e della salvezza, tuttavia lo si è visto parecchie volte compiere le stesse cose senza l'unguento. Talvolta trasporta le streghe servendosi di animali che non sono veri animali, ma diavoli che assumono queste forme, oppure, talora, esse vengono trasferite senza alcun aiuto esterno, semplicemente mediante la capacità del diavolo che opera visibilmente.»
    Il termine sabba è molto antico. Per alcuni studiosi deriverebbe dall'ebraico "sabbath". Il sabato, per i cristiani del Medioevo, era considerato, come altre usanze semitiche, l'origine di tutte le perversioni. Ma sabba venne fatto derivare anche da "sabae", capre, l'animale maledetto in cui si incarnava, secondo la credenza popolare, il capro demoniaco. O sotto la cui pelle si nascondevano le baccanti, duranti i riti orgiastici. Positiva invece l'origine etimologica, derivata dall'astrologia egiziana e babilonese, che attribuiva al numero 7 una posizione privilegiata fra le costellazioni celesti.

    IL SABBA DIABOLICO ATTRAVERSO UN QUADRO FIAMMINGO
    «Il fatto che le streghe possano trasferirsi con il corpo si può mostrare in maniere diverse. Innanzitutto a partire dalle altre operazioni dei maghi. Infatti, se esse non potessero trasferirsi, ciò accadrebbe perché Dio non lo permetterebbe, oppure perché il diavolo non potrebbe farlo. Ecco una storia di un trasporto visibile, avvenuto di giorno. Nella città di Waldshut sul Reno, nella diocesi di Costanza, c'era una strega, così odiata dalla gente della città che non era stata invitata a un matrimonio. Tuttavia, poiché quasi tutti gli abitanti sarebbero stati presenti, indignata, giurò di vendicarsi. Invocò il diavolo, gli espresse la causa della sua tristezza e gli domandò di suscitare una grandinata per disperdere tutti coloro che danzavano. Il diavolo acconsentì, la sollevò da terra e la trasportò per aria su una collina vicino alla città, sotto gli occhi di alcuni pastori.”
    Benché residuali, rispetto alla nuova demonologia del "Malleus", il volo delle streghe e la loro traslazione demoniaca risultano essenziali per saldare credenze arcaiche alla moderna persecuzione del diavolo. Pertanto il sabba, anche per gli autori del "Malleus", risulta luogo privilegiato dell'incontro fra i coprotagonisti del teatro e dei rituali satanici.
    Tanto più grande e incredibile è l'esecrazione allucinatoria che gravita intorno alle donne «immorali, ignobili e perverse», tanto più credibili saranno l'accusa e la punizione comminategli dall'inquisitore.
    Un copione raccapricciante, siglato con la confessione forzata e la tortura, dagli zelanti servitori della fede e dell'ortodossia.

    L'INCUBO DI MADELEINE
    «La grandezza dei delitti [delle streghe] è tale da superare i peccati e la caduta degli angeli cattivi. E se è così per le colpe, perché non dovrebbe essere così anche per i supplizi infernali? [...] La colpa dell'angelo, sotto molti aspetti, è modesta rispetto a quella deplorevole delle streghe. [...] Esse non si danno a piccoli peccati mortali come gli altri peccatori che peccano per debolezza. [...] Quelle che cadono ancora più giù sono le streghe, come dimostrano i loro scempi. [...] Peccando noi andiamo contro un Dio che muore per noi e che, come abbiamo già detto, sopra tutto le streghe riescono a offendere, infamandolo.
    Abbiamo mostrato che innumerevoli effetti di stregoneria possono accadere davvero e realmente, se c'è il permesso di Dio. Si è mostrato anche che Dio lo permette nei confronti della forza generativa più che nei confronti di altri atti umani, proprio a motivo della sua maggiore corruzione.”
    La giovane, mentre parlava, teneva gli occhi abbassati, per pudore o per meglio raccogliere i ricordi. Si stringeva a se stessa e cercava l'angolo più oscuro della stanza, là dove le ombre non riuscivano a penetrare, se non stingendosi nella neutralità del buio. Eppure di fronte ai suoi occhi semichiusi dovevano continuare ad agitarsi forme raccapriccianti.
    «Sì, più volte mi ha condotto al sabba, l'abate Louis. Alla balma di Loubières, e un'altra volta a Roland. A Loubières è stato lungo, orrendo. Ci recammo a cavalcioni di una scopa che aveva preparato; era molto potente, il diavolo non gli negava nulla, credo.»
    Tacque, si rigirò per un istante i boccoli biondi tra l'indice e il medio della mano sinistra. Poi accennò un sorriso, ma senza malizia.
    «Era notte, eppure si vedeva tutto: le rocce, il fiume, i pascoli che scorrevano sotto di noi. Era pauroso e fantastico. Volare, no, non capita tutti i giorni o tutte le notti. Arrivammo al luogo stabilito insieme a un nugolo di streghe e di fattucchiere, che turbinavano nell'aria a una velocità incredibile. Il giorno stava per sorgere, scintillante, e ci riparammo nelle grotte, per proteggerci dal suo sguardo. Come falene, pipistrelli, o lupi mannari. Eravamo parte di un popolo abissale. La festa durò molti giorni. Il diavolo ci attendeva tutti e si era incarnato in un enorme capro. Puzzava, era disgustoso. Ma tutti gli toccavano le corna e lui rideva, bianco e nero, fra le pozze di luce sparse dalle torce resinose. Molti si inginocchiavano e gli baciavano le terga. Fu mostruoso. Una donna giovane e bella si inarcò formando un altare, il seno e il ventre rivolto al demonio. Gli assistenti avevano impastato della farina sulle sue reni, sulle sue anche, mescolandola al seme del diavolo, che è gelido, come sanno tutti quelli che l'hanno ricevuto. E mentre l'impasto friggeva, il demonio confezionava delle ostie blasfeme che distribuiva a tutti i presenti, posandole sulle loro lingue mostruosamente lunghe e violacee.»
    Madeleine tacque, parve riflettere, mentre il suo corpo diventava più minuto, vulnerabile.
    «Com'era assurda, ripugnante, quella scena. Eppure nessuno vi era obbligato. Neppure io. O così pensavo. Anche se, a un certo punto, iniziò a circolare di mano in mano una coppa sempre colma di una bevanda calda, dolce, inebriante. Da quel momento uomini e donne si trasformarono in bestie scatenate, senza più inibizione e ritegno per alcun istinto.»
    Si coprì gli occhi e il volto con le mani ceree, affusolate.
    «Bestie, peggio di bestie.» Si riprese. «Ma devo raccontare tutto, vero? Ancora penso: 'Forse erano solo incubi, immaginazioni suscitate da vecchi corvi, eppure io vedevo, sentivo, toccavo'. Lui, il diavolo stava in piedi. Il torso e il muso di un capro, ma le gambe e i piedi da uomo. L'abate mi aveva svestita completamente, e gettata al centro della grotta. Poi tra le contorsioni oscene dei presenti si era segnato, facendo la croce al contrario e aveva pronunciato parole che rosseggiavano: 'Abrac, Amon, Silon'.
    Dopo una preghiera confusa, Louis aveva gettato dello zolfo sul fuoco. Come a un segnale convenuto tutte le donne si erano spogliate ed era iniziata l'orgia. Ballavano con frenesia. Si contorcevano. Offrivano il loro sesso alle protuberanze della roccia. E il diavolo, camminando sulle sue gambe umane, le possedeva sodomizzandole, una dopo l'altra. E quando incontrava un uomo sodomizzava anche quello. Era una danza infernale, un baccanale senza fine. Louis, l'abate, dopo aver preso parte a quell'orgia mi venne accanto e senza dire nulla mi possedette davanti e dietro.
    Il diavolo salito sul suo trono di pietra vedeva tutto, e pareva gioire delle voci lamentose che invocavano Baroch, Astaroth, Droch e altri orrendi demoni... Ma non fu tutto.»
    La giovane ebbe un sussulto, come se il racconto appena fatto le incendiasse la ragione. Fu sul punto di urlare. Ma voleva dire tutto. Fino alla fine. Sogno o realtà, si sentiva insozzata persino dalle parole. Come in confessione chinò il capo e proseguì.
    «Non fu tutto... Un uomo coi capelli bianchi, gli occhi rossi, allucinati, prese un rospo e gli tranciò la testa con un morso. Una schiuma schifosa si sparse dappertutto, una puzza infernale ci investì. Allora una donna cominciò a ingurgitare manciate di ragni rossi e neri grossi come granchi, che si agitavano e colavano fra i suoi denti, le sue labbra. A questo punto il diavolo assunse l'aspetto di un grosso cane, e si mise a leccare avidamente le ostie, mentre i partecipanti al sabba continuavano ad accoppiarsi freneticamente. E intanto si mangiava e si beveva. Mostri! Non c'era più un viso umano, vino e sangue colavano ovunque e il pavimento della grotta era ricoperto da scarti di cibo, vomito, umori viscidi.»
    La giovane tacque. Si vide in uno specchio nero: ultimo tassello di una notte abominevole. Tremava, al centro della grotta, Madeleine. E danzava, allucinata. E rideva, folle, mostruosa, mentre il Capro la possedeva, stando su di lei, soffocandola con il suo puzzo e il suo peso.
    In un angolo l'abate, Louis, tracciava col piede sinistro infiniti cerchi concentrici. La luce della luna occhieggiava indifferente attraverso il varco della grotta.
    Se l'inferno esiste, Madeleine l'aveva conosciuto fin nelle viscere.
    Come [la strega] disse in seguito, non aveva l'acqua da versare in una fossa (si vedrà che questo è il metodo di cui si servono per suscitare le grandinate); allora scavò una piccola fossa in cui al posto dell'acqua versò l'urina, poi, secondo la consuetudine, la mescolò con un dito al cospetto del diavolo e subito il diavolo, lanciando in alto il liquido, scatenò una violenta grandinata che cadde solamente sui danzatori e sui cittadini. Quando tutti si furono dispersi e discutevano fra loro della causa di quella tempesta, poco dopo videro la strega entrare in città. Questo aggravò molto i loro sospetti, ma quando i pastori raccontarono quello che avevano visto, i sospetti che erano già forti divennero violenti. Si arrestò la strega ed essa confessò che l'aveva fatto perché non era stata invitata. Per questo e per le altre numerose stregonerie da lei perpetrate fu bruciata».


    «Sul modo in cui le streghe sono solite arrecare danni vari agli animali.
    Sul modo in cui i maghi uccidono gli animali e gli armenti, bisogna dire che le stregonerie e gli strumenti della stregoneria si rivolgono verso gli uomini, come verso gli armenti, o con il tatto e lo sguardo, oppure solamente con lo sguardo, sia sulla soglia della stalla, sia dove sogliono abbeverarsi. Sopra tutto perché l'Apostolo dice 'non spetta a Dio la cura dei buoi', volendo accennare, con ciò, che è necessario che tutto sia sottomesso alla divina provvidenza sia gli uomini sia gli animali, e che essa si occupa degli uni e degli altri secondo le modalità proprie a ogni genere, come dice il Salmo: se, io dico, gli uomini con il permesso divino, che siano innocenti, giusti o peccatori, e persino i genitori nei figli, sono colpiti dagli stregoni, queste cose li riguardano. Dal momento che gli animali e i frutti della terra esistono alla stessa stregua delle cose degli uomini, certamente nessuno può dubitare che, con il concorso del permesso divino, danni di varia natura possono essere arrecati loro dagli stregoni.
    [...] Fu per questo che alcune donne furono bruciate a Ratisbona. Apparirà chiaro più sotto che, sempre su istanza dei diavoli, erano solite fare stregonerie quando i cavalli erano migliori, gli armenti più grassi. E quando furono interrogate sul modo in cui facevano queste cose, una, di nome Agnese, rispose che nascondeva certe cose sotto la porta della stalla. Quando le si chiese di che cosa si trattasse, rispose che erano gli ossi di diverse specie di animali, aggiungendo, se le si chiedeva in nome di chi facesse queste cose, che lo faceva in nome del diavolo e di tutti gli altri diavoli. Un'altra, di nome Anna, aveva fatto stregonerie a ventitré cavalli di seguito, di una sola persona, che faceva il postiglione. Quando costui ridotto ormai a estrema povertà, fu costretto a comprare il ventiquattresimo, stando sulla porta della stalla, disse alla strega che stava sull'uscio della sua casa: 'Ecco, ho comprato un cavallo e prometto a Dio, e a sua madre che se questo cavallo morirà ti ucciderò con le mie mani'. La strega così spaventata gli lasciò in vita il cavallo. Quando fu catturata e interrogata sul modo in cui aveva fatto queste cose, rispose che non aveva fatto altro che fare una fossa in cui il diavolo aveva posto certe cose che a lei erano ignote.
    Nella diocesi di Strasburgo, tra le città di Fiessen e il monte Ferrerio, un tale, ricchissimo, asserì che gli erano stati stregati quaranta capi di bestiame, tra buoi e vacche, nell'arco di un anno, non certo per la peste o per una qualche altra malattia precedente. E per rafforzare l'accusa disse che di peste o di qualche altro morbo non muoiono subito, ma a poco a poco e uno dopo l'altro. Quella stregoneria, invece, aveva loro tolto ogni forza improvvisamente cosicché a giudizio di tutti, erano state uccise a opera di una stregoneria. [...] E' tuttavia verissimo che in alcune regioni, e sopra tutto nelle Alpi, moltissimi danni che sono stati riportati dagli armenti sono dovuti a stregoneria e che il genere della stregoneria, diffuso ovunque, è ben noto».


    LA FONTE DIABOLICA
    «I topi sono grandi, mostruosi, e hanno uno sguardo diabolico, rossastro, che osserva, a partire dallo specchio acquoreo, verso il basso del mondo, che è la luna pelvica del mondo sommerso.”
    Ulrigh, il principale accusato, era un uomo senza età, senza statura, senza sguardo. I capelli rossicci, radi, erano appiccicati sulla sua testa, il naso aveva radice ma non contorni. Gli occhi chiari erano torbidi come un laghetto senza luce. Lo chiamavano, nel paese e nei dintorni, "saft" ('sugo'). Pur essendo benestante, i suoi abiti erano sempre riccamente decorati di macchie eterogenee. In lui tutto sembrava sverso, innaturale. Anche il cappello non lo portava come gli altri contadini, con la tesa sugli occhi, bensì schiacciato sul lato sinistro, come se dovesse riparargli l'orecchio dagli improbabili dardi del sole, che raramente lambiva quegli alpeggi alti e nuvolosi.
    Non si ubriacava mai, a detta del popolo, ma beveva sempre. Appena poteva, scappava nella taverna. Le sue tre sorelle brontolavano, ma non potevano impedirglielo. Molti altri - più giovani e gagliardi - quante volte venivano trascinati in slitta o caricati sulle carrette del fieno, ubriachi fino al delirio.
    Lui no. Parlava, col vino in corpo, come un predicatore e un visionario incomprensibile. Ma le sue parole, poco a poco, invece di diventare impastate, soggiogavano l'uditorio, lo plasmavano come cera, lo tacitavano in una sorta di estasi. Alla fine era ascoltato più di un prete, più di un profeta. Così il soprannome fu trasformato in "schweflig" ('sulfureo') nella sua più totale indifferenza. Parlava, assente e concentrato, come un oracolo.
    Un giorno disse, mentre ingollava l'ennesimo boccale di birra spessa, untuosa: «Le alluvioni saranno più frequenti. Il caldo e il ghiaccio creeranno un riscaldamento globale di tutto il mondo».
    «Ma qui non piove quasi mai, i ghiacci sono eterni e bisogna difendersi dal freddo, non dal caldo», disse uno straniero, con un tono di derisione.
    «Voi vedete solo i vostri piedi, che non sono l'interezza terrestre. E comunque tutto ciò lo dimostrano i topi. Osservate i topi...»
    Così era Ulrigh lo sverso, fino a quando qualcuno, sobrio o ubriaco, non decise di denunciarlo al prete della più vicina città con sede vescovile, come presunto stregone e seminatore di zizzania diabolica. Lui e le sue tre sorelle, perché «una famiglia è come un unico vaso, a meno che non si rompa, e dentro bolle e ribolle la stessa zuppa».
    Da tempo, nel paese, gli animali si riproducevano con fatica. E i vicini di casa degli Ulrigh avevano subito la perdita di due vacche da latte e di un giovane toro. Il bestiame si era abbattuto al suolo, come colpito da un fulmine, il muso dei bovini era diventato verde e schiumante prima che si schiantassero, bramendo di dolore e di incredulità. I proprietari erano prossimi alla rovina.
    Per giunta sulle Alpi, sotto la lente algida del mezzogiorno che assomiglia alla luna tracciata da uno scultore di ghiacciai, l'eredità dei beni - considerata sacra e inalienabile - veniva messa in dubbio con mezze parole, proposte sussurrate...
    «Perché non vendete il bosco a est? Perché non mettete a pascolo collettivo il terreno più adatto alla pastura?»
    C'erano ancora greggi e armenti e malghe sui pascoli alti, e gente disposta a comprare la terra. Il fontanile, soprattutto, da tempo immemorabile monopolio di questa famiglia, era molto ambito per l'irrigazione e l'abbeveraggio.
    Si affermava che tra i maggiori interessati ci fosse proprio Ulrigh. E i soldi? Indubbiamente doveva esistere una pentola d'oro, sotterrata dai diavoli, o fornita dalle sorelle, probabili streghe.
    I vicini, che si chiamavano Hastal, ebbero una idea che molti rimuginavano in quei tempi lugubri.
    Così arrivarono gli inquisitori, mentre sulla montagna i tempi erano sempre più duri e già si parlava di carestia. Le castagne erano vizze, le mammelle delle mucche flosce e l'erba per la pastura fradicia. Brutto segno! Qualcuno doveva pur essere responsabile di tanta penuria...
    Ulrigh si recava ogni giorno alla taverna, cianciante e assente, lucido e visionario, come se i suoi occhi vedessero al di là della coltre di nebbia. E mille presenze invisibili lo ispirassero nel suo parlare continuo, magnetico, che diceva tutto senza dire nulla. Non potevano che essere i diavoli a ispirarne la vena inesauribile. Oppure lui stesso era un diavolo, per quanto di aspetto meschino...
    «I topi, dunque?» gli chiese l'inquisitore che aveva fatto sequestrare una baita, nella quale ora teneva sotto chiave il sospetto, incatenato mani e piedi ma non "ad muros", e rifocillato giornalmente, «come gli permetteva il suo stato di abbiente».
    Una misura di acqua, due misure di minestra di farro con grasso, due litri di vino o birra, una misura di pane con segala, mezza misura di formaggio. Le sorelle non gli facevano mancare nulla, anche se la stagione, come visto, era matrigna per tutti. Quanto all'inquisitore, ai famigli e al frate si erano sistemati nella locanda, prevedendo che l'istruttoria non sarebbe stata breve.
    «Quali topi?» tornò a chiedergli l'inquisitore che parlava coperto dal tenebroso cappuccio. «Topi particolari, con occhi diabolici?»
    «No, eccellenza, qui i topi scavano nei granai, nuotano fra diaframmi umani, sono nella malattia, come nella paglia. In città portano la morte, qui, sopra i millecinquecento metri, scaldano i gatti e formano un quadrante. Eh sì, i sapienti non ci dicono nulla, ma il mondo ruota sopra il proprio asse anche adesso: un momento siamo a testa in giù, adesso per esempio», rise mostrando denti radi. «Ma non ce ne accorgiamo, vero? E' come fare ruotare velocemente la secchia del latte sfruttando la forza centripeta. Non ne uscirà una sola goccia: non è straordinario?»
    L'inquisitore, nonostante le osservazioni eccentriche dell'imputato, sembrava seguire un suo tracciato mentale, dal quale non deviava, come se fosse l'unica via retta da seguire.
    «Ma perché i topi?» continuò. «Non ci saranno anche ramarri e gufi e rospi? Quelli grigi e grossi, con occhi tondi e neri, che esplodono nell'aria se gli avvicinate un tizzone? Dite: li vedete in sogno, o vi sono apparsi insieme ad altri ripugnanti animali in qualche raduno notturno?»
    L'uomo guardava con calma l'ombra sinistra del giudice: «Ma no, vedo solo topi, sono qui, nella paglia, sotto i vostri piedi, corrono sul piancito della baita di notte, e segnano il tempo.» Bevve una lunga sorsata di birra calda. «I topi sono l'esercito che sta dietro la barriera umana e il suo sguardo notturno. Altrove possono essere i pesci, o le libellule o i ragni o le conchiglie a misurare l'età della terra, la sua curvatura e il suo peso. Ogni essere ha una funzione. Persino voi.»
    Frate Fabrizius sorrise. Il giudice corrugò ulteriormente la fronte.
    «Libellule?» si limitò a sottolineare. (Con la loro grazia ambigua potevano essere emanazioni del Maligno; il sospetto iniziava dunque a tradire il demone che era in lui?)
    «La natura conosce la natura» alzò le spalle il montanaro «se non lo sapete voi che conoscete il latino e chissà quante altre lingue! Tutti gli animali non sono che sensibili lancette della trasformazioni del cosmo. Esiste un nastro trasportatore, l'oceano, e la sua corrente principale, che è calda, in cui vive una quantità di specie animali e umane, fino alle isole della Bretagna e oltre e senza il nastro moriremmo improvvisamente di freddo o di caldo. Ma anche così esistono montagne di ghiaccio e deserti infuocati, posti su un'altra linea curva che le navi inseguono come un miraggio mentre è reale, perché l'equilibrio stesso è una linea sottile come l'orizzonte, che vediamo precipitare e inghiottire il sole. E su questa linea danzano le visioni, i misteri, il solco fra le due vite e le mille razze umane. Senza contare che nulla è staticamente posto, ma tutto evolve.»
    Il giudice ebbe un sobbalzo. «Bestemmia di fede!»
    Il giovane frate inquisitore fece un gesto leggero, ma imperioso, che la sua bellezza solare colmò di regalità. Nessuno si mosse.
    «Sembrate avere viaggiato molto e conoscete diversi argomenti. Perché non spiegate la vostra teoria, buon uomo?»
    Gli era simpatico quel montanaro dalla eloquenza dotta e involuta. Non vedeva in lui il segno di Satana, piuttosto il marchio di una creazione bizzarra. Perché il sapere doveva essere appannaggio solo dei monaci e degli accademici?
    «Non avete freddo?», gli chiese l'uomo originale, osservandolo con occhi improvvisamente acuti.
    «No.»
    «Lo so, voi venite da un paese freddo e caldo. I gradi di temperatura si eliminano nel vuoto, che crea una distanza. I corpi si dilatano o si restringono al loro interno in modo da mantenere il calore costante al punto che anche la neve che pure è fredda, può diventare rifugio per l'uomo o l'animale, posto che le sue energie non vengano disperse ma conservate nell'intercapedine, che l'aria riempie di strati costanti e tiepidi.»
    Gradi, vuoto? Chi mai avrebbe potuto nominare con tanta sicurezza concetti così astratti e poco conosciuti?
    «Può darsi che sia come voi dite» si limitò a rispondere Fabrizius, a mezza voce, mentre l'inquisitore (Institor) li folgorava entrambi col suo sguardo senza pietà.
    «Solo Dio ha comprensione dei fenomeni che ha creato: Egli ha fatto il caldo e il freddo, come ha creato il leone e l'aquila. Ed è il solo vaso della sapienza.»
    «Ma la scienza è mutata e muterà» gli rispose con sicurezza il montanaro. «Essa si muove come la volta celeste e la terra e il sole...»
    «Basta!» urlò il giudice. «Sono astruserie pericolose le vostre. Tutto accade da sempre, eternamente, solo nel rispetto del Suo ordine supremo e della Sua Provvidenza.»
    «Questa è una verità di fede, io credo, il pensiero, tuttavia...»
    «Siete forse gnostico?» Il frate vide il labbro sottile dell'inquisitore tremare leggermente di rabbia. 'Brutto segno', pensò. Conosceva bene il "Malleus" che l'inquisitore citava a memoria con non celato orgoglio.
    Secondo la terza parte del testo, avendo «fatto arrestare il sospetto senza avere però comunicato le accuse, né chiamati gli accusatori e i testimoni, era possibile anche un interrogatorio più rude da parte dell'inquisitore che poteva, per accertare la verità, infliggere i tormenti alternandoli con minacce e promesse di salvaguardia della vita».
    Pareva che Institor non avesse ancora deciso quale atteggiamento adottare con il sospetto, tanto più che era un uomo, non una donna, ovvero una strega più facilmente catalogabile dalla procedura.
    «Voi dunque Messer Ulrigh, a parte topi non avete mai visto nulla, vero, neppure pipistrelli.»
    «Oh quelli si possono notare qualche volta d'estate attorno ai fuochi delle malghe. Mai quando il freddo è intenso: allora vanno in letargo, sapete.»
    Institor annuì prima di sferrare il colpo che aveva in serbo da ore. «E dite, Ulrigh, potreste giurare di non essere mai stato trasformato in animale, magari un topo, che ne dite, e di non avere mai trasformato o tentato di trasformare altri, qui o altrove, in forme bestiali?»
    L'uomo scosse la testa, come se avesse udito la farneticazione di un pazzo. L'inquisitore, allora, fece un cenno al boia. Dal nulla apparvero dei massicci stringi-pollici a vite. All'imputato furono applicati sul pollice destro e sinistro i morsetti.
    La carne e l'unghia, sotto la pressione dei ferri che mordevano, divennero prima rosse poi bluastre.
    L'uomo fece una smorfia di sofferenza.
    «Eccellenza, quello che dite non è possibile e se lo fosse come potrei io trasformarmi o trasformare altri in forme bestiali e poi farmi o farli ritornare alla loro vera natura?»
    «Ignorate dunque ciò che scrisse sant'Agostino nel "De civitate Dei", XVIII, 17. E ignorate ciò che vedemmo noi stessi e udimmo a Rodi, nelle zone orientali. Fatti veritieri raccolti da frati dell'ordine di san Giovanni Gerosolomitano.» Gli occhi dell'inquisitore erano spiritati e in mano brandiva il suo libro come un ferro infuocato.
    «Capitolo Quarto» recitò con voce rauca. «Le ostesse trasformavano gli ospiti in giumenti adatti a portare pesi. E il padre di Prestanzio raccontò di essere stato un cavallo da tiro e un asino, e di avere portato i bagagli insieme ad altri animali.»
    L'uomo strinse i denti per il dolore.
    «Per me sono leggende e basta.»
    «Due giri stretti», sibilò l'inquisitore, e il boia strinse ulteriormente i morsetti finché il sangue cominciò a sprizzare da sotto le unghie spappolate.
    L'uomo non riuscì a trattenere un urlo. Il frate teneva il capo chino, le sue labbra esangui pregavano.
    «E il giovane marinaio, che citammo sempre nel nostro libro, fu trasformato in asino, dopo aver mangiato delle uova che una strega gli aveva dato. Anche questa è una leggenda? Voi non sapete dunque che con la benedizione del papa e le testimonianze di dotti e santi e padri della Chiesa, si afferma in questo libro che chi non crede all'esistenza di fatti diabolici, da voi definiti 'leggende' è innanzitutto un eretico, o un seguace di eresia, oppure...» tenne in sospeso la parola terribile «oppure egli stesso è un seguace del Maligno, è uno stregone.»
    La testa dell'uomo ciondolava tra i gemiti. Il giudice, come se non lo vedesse, ordinò al famiglio di calzargli lo stivaletto. Il boia gli strinse intorno alla caviglia una sorta di anello che veniva serrato progressivamente da una chiusura a vite.
    «Mezzo giro» ordinò il giudice, e il ferro incise la carne. Aggiunse: «Il fatto che l'imputato non gridi o chieda pietà o confessi non significa sempre ciò che sembra».
    Per la prima volta frate Fabrizius assisteva a un esempio concreto di 'deduzione tautologica'.
    L'imputato poteva confessare sotto i tormenti, e ciò avrebbe dimostrato, inconfutabilmente, la sua colpevolezza. Oppure poteva professarsi innocente nonostante la tortura, ma questa resistenza avrebbe comprovato solo la complicità diabolica!
    Il torturato mormorò: «Non so nulla». Poi svenne.
    «Togliete i ferri», ordinò il giudice al boia. «Rianimatelo. Deve essere senziente, secondo la procedura legale.»
    Poi come parlando a sé: «Forse ci troviamo di fronte a una setta malefica ben più vasta e potente. La morìa del bestiame è solo un sintomo di malefizi.»
    «E se fosse solo un fatto naturale?» azzardò il frate con impeto giovanile. L'inquisitore lo osservava in silenzio, lo sguardo immobile, distante, senza battere ciglio.
    «Dove ho studiato io, in Francia», continuò il fraticello, «un'estate, a Montpellier, accadde un fatto straordinario: decine di mucche morirono in un solo giorno muggendo di dolore. Si pensò a un'epidemia e anche al fattore diabolico. Ma un abile cerusico affermò che gli armenti avevano mangiato troppa erba cattiva, che cresceva solo in quella zona e che fermentando innaturalmente nel loro stomaco le intossicava a morte.»
    L'inquisitore fece il segno della croce. «Spero anch'io che la nostra santa istruttoria non ci conduca su altre fosse infette. Convocherò presto le sorelle dell'imputato.»
    «No, le mie sorelle non c'entrano» gemette l'imputato che si era ripreso dallo svenimento e con le mani doloranti e tremanti tentava di afferrare la brocca di birra. Con un gesto di umana pietà frate Fabrizius gli avvicinò alle labbra il recipiente. In quel momento un'ombra terribile, grondante dolore e sangue, scese davanti ai suoi occhi. Dietro un rosso squarcio vide nel reietto un'immagine del Cristo battuto, sanguinante, le spalle slogate dalla croce e le labbra spaccate dalla sete.
    «Aqua vitae sed igitur aqua mortis», sussurrò il torturato. «Due sono le fonti e non sempre le bestie bevono al fontanile giusto, ma gli uomini sì, a meno che non sappiano...»
    L'inquisitore ebbe un ghigno. «Andate pure, giovane collega, parlate con chi volete, investigate come meglio credete.»
    Quando riaprì le palpebre, gli apparve di fronte la casa di Ulrigh. Una costruzione con un solo piano, solida, in mattoni calcinati e travature di pino, che disegnavano arboree geometrie sullo sfondo bianco dei muri. Fabrizius era un sognatore, forse per questo era entrato nell'ordine del visionario san Francesco. La montagna, più del mare, sa impregnare la curiosità umana di malinconici interrogativi sul divenire, il passaggio aereo di un filo di fumo o il gregge di nubi che all'improvviso solcano il cielo.
    La porta si spalancò davanti a lui. Una stanza enorme, rispetto alla cella del suo convento di Avignone, e alla stanzetta soffocata della trattoria, ma in ogni spazio (il vuoto?) c'era un accumulo denso di sapori, di odori, di pensieri. Sì, anche di pensieri.
    «L'aspettavamo», disse una voce di donna, matura e materna.
    «Ma io conosco appena il paese, e poi sono venuto d'impulso» rispose sorpreso il giovane. Frasi del genere sarebbero state sufficienti all'inquisitore per fare sospettare le pie donne di essere pericolose pitonesse.
    «Qualcuno si sarebbe fatto vedere, è normale» disse una voce d'ombra, più bassa e argentina.
    «Abbiamo apparecchiato per lei, ogni sera, un piatto» aggiunse una voce quasi infantile.
    Seguì una risata serena, come se la casa fosse una fronda verde su cui cinguettavano molti passeri, felici per il solo fatto di essere al mondo.
    «Non siamo streghe, signor teologo, anche se le ciance a questo vorrebbero convincere la vostra Inquisizione...»
    «Ma sedetevi, prego. Questa sera dovrete accontentarvi di un semplice vitto delle nostre alpi. Polenta, fagioli, insaccato di manzo e miele. Formaggio, se vi aggrada, e vino aspro. Acqua di fonte, naturalmente.»
    «Acqua!?»
    Fabrizius fu circondato nella penombra da tre presenze quasi identiche, scontornate dal fumo del camino, che si muovevano come in un ballo senza musica, seguendo un ritmo interiore, misterioso. Non c'era nulla di mondano nei loro gesti, eppure la semplicità con cui lo accolsero era più che principesca.
    «Tra ciascuna di noi ci sono circa cinque anni di distanza, monsignore», disse la voce più posata. «Io sono Astrid, lei è Astrud, e la nostra bambina si chiama Astred. Non ha ancora 25 anni. Ma forse è la più saggia della famiglia, escluso Ulrigh, s'intende. Che pur essendo maschio, ci ha sempre consultate per ogni cosa, non ci ha mai battuto e come capofamiglia ci ha consigliate anche nei momenti più difficili.»
    «Perché non vi mostrate, sorelle, affinché possiamo spezzare insieme il pane, e dividere il vino che anche oggi ci offre nostro signore Gesù Cristo? In nomine Patris et filli et spiritus sancti.» Il frate scostò il cappuccio, mostrando il volto bellissimo alle tre donne.
    «Eccoci presenti al vostro santo sguardo» dissero tre voci all'unisono. Il frate vide, in contrasto con le vampe del camino, tre volti bianchi, quasi identici su cui il tempo aveva scritto nomi diversi. Petali di magnolia, sempre uguali, caduti da stagioni diverse. Bevve un sorso di vino, leggermente turbato. «Perché non sedete e non mangiate e perché non mi raccontate della vostra famiglia?»
    «Noi abbiamo già desinato, monsignore, quanto al resto non ci sono segreti.»
    «Noi siamo tutti Ulrigh» disse la prima donna a destra. «Il nome del capofamiglia è il nostro patronimico.»
    «Siete dunque nobili?»
    «La nostra famiglia ha avuto pascoli, proprietà, forse un castello» disse la seconda voce. «Nostro nonno, Ulrigh primo, aveva fabbricato un mulino per le macine che il principe o l'imperatore utilizzarono in molti opifici. Ottenne persino un feudo, pare. Ma poi le guerre, le invidie della gente e un certo carattere - 'il carattere degli Ulrigh' - fecero sì che molti privilegi fondessero al sole, come neve. Le guarentigie sono finite, è rimasta però la gelosia di molte persone. Qui siamo considerati signori, anche senza simboli araldici. Il che non è un fardello facile da portare. Nostro padre ha costruito carri e mulini, e persino una vela che girava giorno e notte, a seconda del vento, senza mai diminuire il moto della macchina... I disegni sono nel granaio. Abbiamo ancora due fattori e gente a giornata e molti pascoli alti. Solo l'acqua ci manca, vedete, forse per questo è accaduta questa disgrazia.
    «Già, l'acqua» la interruppe Fabrizius, meditabondo.
    «Per gli altri noi siamo una famiglia maledetta. La nostra somiglianza, nonostante la differenza d'età» disse la sorella dalla voce più profonda. «E poi il fatto che i nostri genitori siano morti di una malattia sconosciuta a poche ore di distanza. E infine l'aspetto e i modi del nostro signor fratello», aggiunse la voce da adolescente.
    «Lo stesso prete che viene una volta alla settimana nel borgo ci guarda con certi occhiacci, come se fossimo bestie cattive» precisò Astrud.
    Frate Fabrizius addentò un pezzo di pane, che gustò insieme alla delicatezza della polenta impastata col sesamo. In quel momento, un pensiero trasversale attraversò il suo benessere: 'L'avrebbero avvelenato? Erano streghe?'. Ma era un pensiero scherzoso. Non riusciva a ragionare con le categorie del libro nero. Anche i suoi occhi vedevano in modo diverso.
    Chiese, soprappensiero: «Voi pensate che la fonte sia all'origine di tutto, anche della morte?».
    I tre volti perfetti come cammei annuirono, abbassando leggermente il mento.
    «Ma non il fontanile comune, non quello.»
    «Nostro fratello è stato molto male» disse Astred. «Successe dopo la morte dei genitori. Eppure all'epoca non beveva ancora all'osteria. Appena ristabilito partì e tornò dopo tre giorni, stanco e infangato come se avesse camminato nei boschi come un lupo.»
    «Un lupo!» trasalì il frate inquisitore.
    «E' solo un modo di dire», lo rassicurò Astrid. «Recava con sé due fiaschi, il cui liquido cristallino e trasparente pareva in tutto e per tutto acqua di fonte.»
    «E poi?» incalzò il frate, intrigato.
    «Ci vietò di toccare per qualsiasi motivo quelle fiasche, che anzi chiuse nell'armadio, a chiave, per timore che la piccola Astred, per curiosità, le toccasse. Chissà cosa contenevano...»
    «Ogni tanto si ritirava nella sua stanza con quel recipiente e un misurino di vetro e stava infermo, a letto, per molte ore. A volte restava chiuso per tre giorni. Senza mangiare.»
    «Io lo sentii urlare più volte, nella sua stanza sbarrata, come se soffrisse di un male terribile, ma non disse mai nulla, non chiese mai di essere visitato dal medico né volle dei medicamenti. Poi dopo alcune settimane iniziò a bere. Birra, vino, acquavite. Sembrava guarito da un male, ma aggredito da un altro.»
    Il francescano annuì.
    Un pensiero bizzarro gli solleticava la mente: l'acqua cambiava colore, mutava di sostanza. L'acqua era il veleno o il 'trasportatore'? Non parlava spesso di oceani e correnti, l'imputato? Quella fiaschetta conteneva un filtro o un rimedio?
    «Madamigelle» si risolse a chiedere, dopo un lungo tormentato silenzio. «Perdonate la mia domanda forse sciocca, ma voi, ecco, siete molto diverse nell'aspetto da vostro fratello.»
    Forse arrossì, ma continuò: «Potete dirmi per certo che è stato sempre così, di colorito grigiastro, labbra violacee, la pelle del volto e delle mani grinzose e quegli occhi che a parte rari momenti sono come smorti...»
    Astrid stava per replicare, certo in favore del signore fratello, intoccabile. Ma fu Astrud a parlare con tono pacato, persuasivo: «Dopo la morte dei nostri genitori, e la terribile malattia che lo portò sull'orlo della fossa nostro fratello ebbe un cambiamento repentino. A volte sembrava verde, a volte grigio come la cenere, specie durante il periodo in cui si chiudeva in camera con la sua fiaschetta.»
    «Non fu l'eccesso di bevande alcolizzate?»
    «Non certo all'epoca», rispose con voce piatta Astrid. «In seguito chi può dirlo?»
    'Che fosse un alchimista?' rifletté il saggio frate. Ne aveva il linguaggio, se non l'aspetto. O uno stregone, che si tramutava in belva notturna, in licantropo, come suggeriva il libro dell'inquisitore? La "vox populi" gli attribuiva fra l'altro poteri paranormali, o prerogative magiche, a partire dalla sua straordinaria facoltà di bere barili di birra, damigiane di vino, senza mai ubriacarsi. Una mente che non poteva essere obnubilata dai fumi alcolici non era normale... Si rivolse pensoso alle sorelle: «La fonte a cui attingete acqua, questa per esempio» indicò la brocca «è uguale per tutto il paese? Il fontanile che l'alimenta è l'abbeveratoio comune delle bestie? E la strana malattia dei vostri genitori e la strana trasformazione di vostro fratello potrebbero derivare dal medesimo liquido?». Astrud rispose: «L'acqua è la stessa, non c'è dubbio, i nostri vicini sono proprietari del terreno da cui sgorga la fonte e per diritto feudale, vescovile, percepiscono tuttora un balzello sull'acquatile. Poi esiste anche qualche deposito individuale di acqua piovana, noi abbiamo una cisterna dietro il fienile, e, a seconda del bisogno, l'acqua di neve sciolta può venire usata per l'orto, a volte anche per le bestie».
    Il frate annuì. «Ma le bestie morte, di cui si sospetta l'intervento diabolico di vostro fratello, dove si sono abbeverate?»
    «Penso al fontanile. Dove altro se no... Tutti noi usiamo quell'acqua, anche per lavare i panni. C'è un lavatoio annesso che raccoglie l'acqua della stessa sorgente.»
    «Ma qualcuno non avrebbe potuto avvelenarla temporaneamente, per fini maligni?»
    «Eccellenza, siamo persone di buona fede e di buon senso... Quando un topo cade nell'acqua, per esempio, viene subito eliminato e si sospende per il tempo necessario la distribuzione delle acque. Tutti rispettano questa regola.»
    'Già', rifletté il frate, mentre due parole gli correvano sotto pelle: acqua, topi.
    «Ma non vi risulta, madamigelle, che esista una seconda fonte, nel circondario?»
    «Forse sulle montagne, ad alta quota, di origine nevosa, e precaria, ma l'acqua non arriva a valle; diversamente non dovremmo contenderci una polla e un fontanile, tante anime quante siamo in paese, più le bestie.»
    «E se fosse un segreto che pochi conoscono, o una trappola sulfurea?»
    «Questo allora dipende da Dio e da voi, scoprirlo...»
    La situazione precipitò in poche ore. Quella sensazione da nulla che durante la notte aveva graffiato Fabrizius, come una spina introvabile, si materializzò. Non era ancora spuntata l'alba e due bargelli, armati di picca e di spada, strapparono bruscamente il francescano al suo sonno innocente. «L'inquisitore vi domanda» si limitarono a comunicargli.
    Il giudice sembrava più accigliato che mai: senza dubbio aveva saputo della sua visita serale alle tre sorelle e temeva che un indizio importante gli stesse sfuggendo di mano.
    Chissà che cosa aveva scoperto quel giovane strano, che gli stessi valligiani guardavano con reverenza, come se fosse una specie di reincarnazione del santo di Assisi i cui tratti smunti, il cui sorriso beatifico, circolavano su molte immaginette religiose.
    Le tre sorelle avevano assicurato al francescano che, in giornata, sarebbe giunto al villaggio un medico amico, molto competente nel diagnosticare le cause di morte di uomini e animali. E che alcuni paesani, tra cui i loro famigli, avevano già pronte le vanghe per dissotterrare le vacche morte. Fabrizius, scortato dai birri, giunse al capanno che fungeva da prigione. Salutò umilmente il primo inquisitore, che subito lo mise al corrente che «il Pontefice Innocenzo Ottavo, Nostra Santità, ha abbandonato questo mondo illusorio, e il conclave, prontamente adunato, lavora alacremente, sotto lo sguardo ispiratore di Dio».
    'E' iniziato un interregno e l'unica legge valida, adesso, sta scritta nel "Malleus".' Questo pensò il frate con i calzari consunti, la pianta dei piedi escoriata, e gli occhi azzurri affondati nella disumanità che lo circondava.
    «Noi oggi proveremo una grande verità di fede, che va oltre i vari Stati e i vari interessi particolari» disse Institor. «La verità che conosce solo l'Eterno, di cui noi siamo umili esecutori.»
    Le tre sorelle erano state rinchiuse in un capanno meno confortevole della 'cella' in cui avevano ristretto Ulrigh.
    Le tre donne erano sospese a corde tirate da argani che cigolavano a ogni minimo spostamento d'aria.
    'Astrid, Astrud e Astred', le nominò senza incertezza lo sguardo azzurro di Fabrizius. Erano sollevate da terra per almeno cinque piedi: le loro forme graziose sembravano innaturali, fluttuanti nello spazio come membra dissociate, corpi deformati da un pennello acquatico. Certo soffrivano.
    «Le conoscete, vero?» chiese con un ghigno l'inquisitore.
    «Sono la famiglia dell'imputato.»
    «Forse sono anche il bandolo della spola diabolica.»
    Si guardarono, il domenicano e il francescano, come il fuoco guarda il fuoco, senza decidersi ad abbandonare la propria brace materna.
    Poi, Kramer fece un passo: «Ora leggerò loro delle pagine edificanti, e vedremo come reagiranno i loro spiriti».
    «Ma non potete lasciarle appese con tre tratti di corda. Questa non è la camera di tortura!»
    «No, di certo, fratello, solo un interrogatorio preventivo a cui mi autorizza la gravità del caso.»
    «E se vi dicessi che state sbagliando tutto, Institor! Riferirò al generale del mio ordine. Anch'io partecipo a questa inchiesta!»
    L'inquisitore parve riflettere poi ordinò al boia: «Che i loro piedi tocchino terra.»
    La voce di Astred si fece sentire attraverso una risata sarcastica e infantile. Il frate uscì di corsa, sbattendo la porta della baita. Seduto su un rozzo scranno l'inquisitore iniziò a leggere alle donne, inarcate fra il pavimento di terra battuta e la travatura del capanno, il capitolo quindicesimo del suo libro.
    «Per la vostra elevazione spirituale, ecco come noi consideriamo: 'La continuazione dei tormenti: cautele e segni da cui il giudice può conoscere la strega e come deve premunirsi dalle loro stregonerie».
    Fabrizius raggiunse il centro del paese, dove era collocata la vasca di decantazione della fonte comune. A qualche metro si trovava il fontanile che snodava nell'abbeveratoio una spessa corda di acqua limpida. Più distante, sotto una tettoia, c'era il lavatoio. Un sistema idraulico, semplice ed efficace. In quel momento buona parte dei paesani era adunata sul posto, come se un araldo li avesse strappati alle loro occupazioni quotidiane. Cosa stava per accadere?
    La risposta si materializzò in un carretto trainato da un mulo sul quale sedevano a cassetta un ometto dal largo cappello nero e dai lunghi capelli bianchi. Accanto a lui un giovane robusto, dai tratti marcati, stringeva le redini.
    «Ecco il cerusico preannunciato da Astrid!»
    Fabrizius senza tanti complimenti lo avvicinò: «Avete portato il necessario, immagino.»
    L'uomo lo squadrò con uno sguardo curioso e divertito.
    «Come frate non appartenete certo alla norma» disse poi, valutandone la statura e la corporatura robusta e slanciata in una ascetica magrezza.
    «Mi chiamo padre Fabrizius e sono un teologo francescano» scandì il religioso, per ribadire davanti ai paesani il suo ruolo ufficiale.
    «Già» disse il medico con aria distaccata, come se fosse lontano chilometri, «siamo qui per i pesci, l'acqua, la prova della morte e i topi. Tre prove fra Dio e il diavolo.»
    Fabrizius lo guardò esterrefatto.
    «Per cominciare» disse con sicurezza il medico, «questa fonte non può essere avvelenata, neppure temporaneamente, e così pure l'abbeveratoio. Vedete laggiù quella vasca circolare? Funge da bacino di decantazione. Dentro ci sono sempre decine di avannotti, i 'girini' della trota. Se morissero, immediatamente si saprebbe che l'acqua possiede impurità o è stata inquinata. Guardate.» Gettò una manciata di polvere nel bacino. «E' cenere. Neppure nociva all'uomo, eppure letale per questi 'girini'.» In pochi minuti, infatti, dopo aver compiuto una giravolta di guizzi impazziti, gli avannotti galleggiavano immobili sul pelo dell'acqua.
    «Ora l'acqua, continuando a scorrere, in pochi minuti si autodepurerà» disse il medico, mentre rimescolava il fondo del bacino, per favorire la fuoriuscita degli invisibili residui di cenere.
    Fece un cenno e l'assistente versò il contenuto di un boccale nella vasca. Decine di piccoli pesci precipitarono nel depuratore bonificato.
    Dopo un attimo di indecisione presero a nuotare con guizzi allegri e irregolari. I presenti manifestarono la loro approvazione, battendo le mani sulle ginocchia.
    «Niente Maligno, dunque, da queste parti» asserì il dottore. «E adesso andiamo a osservare quelle povere bestie morte.» Dei robusti boscaioli avevano disseppellito i corpi delle mucche che, secondo gli accusatori, erano state fulminate da un maleficio.
    Il dottore le osservò. I corpi erano intatti come se fossero state interrate da poche ore. Il medico introdusse nella pelle e nelle zampe degli animali uno specillo che annusò con cura. Fabrizius osservava con estrema attenzione ogni gesto del cerusico. Alla fine questi si inginocchiò, per osservare da vicino il muso di una bestia e ne sollevò le palpebre.
    «Avvelenate, e con una dose abbondante anche», diagnosticò con sicurezza.
    «E' chiaro che si tratta di un'opera di stregoneria» disse il capo degli Hastal. «La pelle degli animali è ancora intatta e...» In quel momento si avvicinò ai cadaveri un cane randagio. Li annusò e si allontanò, mugolando. Sembrava spaventato a morte da ciò che aveva percepito col suo straordinario olfatto.
    «Non è anche questa una prova della natura diabolica del delitto?» insistette il rude Hastal. La gente intorno cominciava a dargli ragione, sempre più numerosa e rumorosa. Il rappresentante della scienza scuoteva la testa, incredulo e confuso. Non riusciva a trovare una spiegazione a quel caso anomalo.
    Dopo qualche istante di silenzio, come ispirato dal Signore, Frate Fabrizius iniziò a parlare. Lì, sulla piazza, gridò in faccia a tutti, con lo sguardo fisso su quell'Hastal: «Un uomo è sottoposto ai tormenti, tre donne sono appese alla fune e Dio sa se qualcuno non avrebbe interesse a estendere questa istruttoria. Magari per giungere al sequestro dei beni degli imputati o di altri abbienti. Non tutto ciò che è malattia e morte viene dagli inferi o dipende dalla volontà divina, dal suo permesso, come afferma il libro degli inquisitori. Esistono anche congiunture naturali».
    «Questo è parlare giusto» confermò con entusiasmo lo scienziato, non certo seguace di facili superstizioni.
    Molti dei presenti lo guardavano come fosse un invasato.
    «Dov'è la seconda fonte su questi alpeggi?»
    «Non c'è altra fonte salvo questa» rispose calmo Hastal, e tutti annuirono.
    «Non è vero» ribatté Fabrizius. «Dottore, lei e il suo assistente e quanti vogliono appurare la verità mi seguano. Ulrigh conosce il segreto dell'acqua che uccide. Ci condurrà a quella fonte, con le buone o con le cattive.»
    Insieme ad altre persone, fra cui il cerusico e il suo assistente, il frate francescano fece irruzione nella prigione di Ulrigh.
    Institor divenne livido. Nell'udire le parole del frate, che lo mise al corrente delle sue convinzioni, scosse la testa.
    «La spiegazione è solo demoniaca. Ma se intendete insistere sui fattori naturali fate pure. Le tre sorelle, in ogni caso, rimarranno qui, in residenza cautelare, a garanzia delle indagini. Fate attenzione, fratello. Vi ritengo responsabile, in nome dell'autorità e del mandato conferitimi dell'Ordine di cui sono un indegno rappresentante, nonché della testimonianza dei presenti, di ogni e qualsiasi illegalità e turbativa che possa essere causata dalla vostra iniziativa.»
    Fabrizius e gli altri uscirono prima ancora che l'inquisitore finisse di parlare.
    «Portateci, dunque, dove sapete voi» disse Fabrizius a Ulrigh, che aveva sempre le mani incatenate.
    «I topi, portate dei topi» ripeté con voce spezzata l'uomo che era molto provato dalle torture e dai maltrattamenti subiti.
    «Ho delle cavie sul carro» confermò il medico.
    «Siamo arrivati» disse a un certo punto Ulrigh, che fino a quel momento si era murato in un doloroso mutismo. «Laggiù, quelle rocce sulla scoscesa.»
    Nascosta tra le foglie e le pietre, videro una sorgente. L'acqua non era copiosa, si raccoglieva in uno sbalzo di roccia a forma di coppa. Anche per il bestiame era facile attingere a quel ruscelletto stillante.
    «Attenti» disse Ulrigh, che guardava con occhi spiritati la pozza, come se fosse un nemico mortale. «Non la toccate.» Poi con gesti rigidi, quasi rituali, immerse le mani nell'acqua e si portò alla bocca le palme gocciolanti. Bevve lentamente, con gli occhi chiusi. Subito dopo si verificò un tremito in tutto il suo corpo e tutti ebbero la sensazione che i capelli e i peli della barba gli si rizzassero, come per un improvviso colpo di vento. Dopo questa scossa subitanea e impressionante, Ulrigh si sedette sulla roccia, guardò il vuoto.
    «Solo io posso bere quell'acqua maledetta. Come vi ho dimostrato. Ora la parola alla scienza. Prendete i vostri topi e immergeteli nella pozza. Vedrete cosa succederà.»
    Il dottore, senza fiatare, prese dal cassone due gabbie che contenevano dei topi, alcuni più grossi, altri più piccoli. Li immerse nell'acqua. Annasparono disperatamente e dopo pochi minuti erano immobili.
    «Morti» diagnosticò il dottore, mentre sulle zampette e sul muso delle cavie si stendeva una minacciosa patina scura.
    Il cerusico osservò la rapida trasformazione "post mortem" dei ratti, li annusò e sostenne con autorità: «Per la mia esperienza direi che si tratta di arsenico, sotto forma di sali arseniati o acido».
    «Arsenico?» esclamarono stupiti i paesani.
    «Già» sottolineò lo scienziato. «E' raro trovarne in questa concentrazione, altamente tossica, ma non conosciamo l'origine della vena d'acqua. A una certa profondità, nella terra, si trovano sali di arsenico stratificati. Per questo i pozzi artesiani devono essere controllati accuratamente. Vedete» continuò, «assunta in piccole quantità quest'acqua non dovrebbe essere mortale, ma se le bestie ne hanno bevuto abbondantemente, sono rimaste avvelenate. Non esiste antidoto.»
    «Vi sbagliate!» Era la voce sicura di Ulrigh che osava contraddirlo. «L'acqua è l'antidoto all'acqua, come avete ben visto.»
    «In effetti il vostro aspetto è singolare, guardandovi meglio. Il colorito, la postura... E' come se foste sopravvissuto a un forte male interno.»
    «Sì, mi sono quasi avvelenato a questa fonte, ma sono sopravvissuto e allora ho tentato di penetrare il segreto dell'acqua maledetta, bevendone piccoli sorsi, fino a quando per me è diventata innocua.»
    «Vi siete autoimmunizzato. Questo si chiama mitridatismo.»
    Dopo la dimostrazione, fu accertato senza fallo che Ulrigh aveva bevuto l'acqua arsenicata, dopo la morte dei genitori, forse avvelenati tempo prima dalla stessa polla.
    L'uomo non aveva raccontato niente all'inquisitore perché era un uomo strano, non per niente lo chiamavano 'sulfureo'. Non si sentiva parte della comunità. E quando parlava, sembrava che profetizzasse! Inoltre, si sentiva una specie di miracolato per il fatto di avere 'esorcizzato' l'acqua di morte.
    L'inquisitore non poteva accusare di stregoneria quel poveruomo. I fatti erano chiari. Anche il paese, ormai, stava dalla parte di Ulrigh e la famiglia degli accusatori ritirò la denuncia. L'istruttoria fu trasferita a un tribunale civile. L'uomo venne condannato a pagare un'ammenda per non avere comunicato tempestivamente al balivo l'esistenza di una fonte probabilmente inquinata. Venne inoltre obbligato a sostenere le spese necessarie a murare la fonte maledetta.
    Riguardo alle sorelle, Institor non ebbe interesse a continuare l'istruttoria contro di loro. Avrebbe dovuto iniziare una nuova procedura per la quale non aveva alcun elemento o indizio, al massimo poteva ordinare una purificazione canonica, con i "compurgatores", trattando le sorelle come persone diffamate, secondo la procedura del "Malleus".
    Fabrizius non mancò in seguito di riflettere che, data l'inquietante somiglianza delle tre sorelle, quasi a confondersi in un solo essere, e dati i numerosi segni di stranezza da loro dimostrati, sarebbe stato facile accusarle di stregoneria. Un'ombra allora passò sul viso del frate, insieme a un vago sorriso.


    Edited by Tirannosaurorex - 10/4/2021, 22:24
     
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    STREGONE O LUPO MANNARO
    «A livello sociale la ragion d'essere della stregoneria sta nel fatto che può essere identificata come la causa della disgrazia. La figura dello stregone, il sistema simbolico della stregoneria, è rapportato all'immaginario dello stregone, al desiderio - che gli si suppone proprio [...] - di infrangere le interdizioni, di trasformarsi in animale, di decidere della vita e della morte, di credersi un re. [...] Forse re, ma per un istante. [...] Si uccide lo stregone per non morire e perché egli non è re [...] perché il re regni e gli stregoni possano ancora servire, quando giungeranno la disgrazia e la morte, a dare loro un volto e l'aspetto di una ragione.»
    Una figura assimilata alla stregoneria, o che in parte ne surrogò i connotati diabolici, a livello di immaginario popolare, fu quella dell'uomo tramutato in bestia: lo stregone e la strega in grado di trasformarsi in belva terrorizzante, assetata di sangue umano.
    «Inoltre le streghe in virtù dei diavoli trasformano gli uomini in forme bestiali, appunto perché tali trasformazioni vengono fatte principalmente. Tuttavia nella prima parte dell'opera si è ricercato se le streghe sappiano fare tali cose; ed è stato dimostrato abbastanza chiaramente. Nondimeno tale questione potrebbe apparire ancora troppo oscura nelle sue argomentazioni e soluzioni, specialmente se non vengono riferiti atti ed episodi a questo proposito.
    E' che gli uomini sembrarono mutati in bestie per l'arte dei prodigi e che quella trasformazione venne fatta nel modo descritto in precedenza. Il secondo è che qui fardelli troppo pesanti per le forze di coloro che li portavano, furono portati invisibilmente dai diavoli. Il terzo è che coloro che sembravano agli occhi degli altri mutati in bestie lo sembravano anche ai loro stessi occhi, come accadde a Nabucodonosor che, per i sette anni durante i quali fu trasformato, mangiava fieno come un bue. [...] Come si può dimostrare a partire da quanto dice Alberto nel suo "De animalibus", quando si domanda se i diavoli possono fare veri animali e risponde affermativamente, ma solo se si tratta di animali imperfetti. E' inoltre con questa differenza che il diavolo non opera istantaneamente come Dio, ma attraverso un movimento in certo qual modo improvviso come lo si vede a proposito degli stregoni nel libro dell'Eco.
    Sopra tutto da ciò che ci viene riferito da Agostino nel "De civitate Dei" su certi fatti che dichiara con diversi argomenti. Fra le altre trasformazioni dovute a prodigi egli riferisce quella della famosissima maga Circe che aveva mutato in bestie i compagni di Ulisse. Allo stesso modo certe locandiere avevano mutato i loro ospiti in bestie da soma. Ricorda ancora i compagni di Diomede che, mutati in uccelli, avevano lungamente svolazzato intorno al suo tempio. Ricorda quel che Prestanzio ci aveva raccontato di suo padre in modo verace: suo padre diceva di essere stato un cavallo e di aver trasportato sul dorso le derrate con gli altri animali.”
    «Dio punisce un popolo per i suoi peccati, secondo le parole del "Levitico": 'Se non eseguirete i miei ordini manderò contro di voi le belve del campo che distruggeranno voi e il vostro bestiame'. O quelle del "Deuteronomio": 'Le fauci delle fiere manderò contro di loro con furore'. Quanto alla questione se essi siano veri lupi o diavoli che assumono tale forma, diremo che sono veri lupi, ma ossessi o posseduti dai diavoli, e questo può verificarsi in due modi. Nel primo caso, accade senza l'opera degli stregoni, come successe ai quarantadue bambini che furono sbranati da due orse, che uscirono da un bosco perché si erano beffati del profeta Eliseo dicendogli: 'Vieni su, testa pelata', o nel caso del leone che uccise il profeta che aveva disobbedito all'ordine di Dio. O come nella storia del vescovo di Vienna, che aveva istituito litanie minori prima dell'Ascensione del Signore perché alcuni lupi erano entrati nella città e avevano divorato gli uomini pubblicamente. Ma questo può avvenire anche in un altro modo, per un'illusione degli stregoni. Così Guglielmo racconta di un uomo che credeva di essere stato tramutato in un lupo e in certi periodi si nascondeva nelle caverne. Vi andò per un certo periodo di tempo e, mentre stava lì, gli sembrava di essere diventato un lupo e di andare a divorare i bambini. In realtà era il diavolo che faceva questo, avendo assunto la forma di un lupo, e lui a torto pensava sognando di divorarli. E fu a lungo demente, finché un giorno lo si trovò mentre delirava nella foresta. Il diavolo si diletta a fare questo genere di cose per diffondere l'errore dei pagani, che pensavano che gli uomini e le vecchie si mutassero in bestie. Si capisce quindi che queste cose avvengano, con un particolare permesso di Dio, per opera dei diavoli e non per qualche difetto naturale, perché non c'è arte o potenza che valga a colpirli o a catturarli. Vincenzo di Beauvais così racconta nel suo "Specchio": 'In Gallia, prima dell'incarnazione di Cristo e prima della guerra punica, un lupo portò via dal fodero la spada di una sentinella'.»

    Nei dintorni tutti lo indicavano sotto voce come 'lo stregone di Chaturanges'. Ma davanti a lui, anche le persone benestanti facevano un leggero inchino e mormoravano: «Monsieur Pavane, mes compliments».
    Era un vecchio contadino che viveva in solitudine quasi totale nella sua grande masseria e che si diceva possedesse un'enorme fortuna. Non solo terra, armenti, cavalli, un carretto e una carrozza padronale, ma anche cassapanche colme d'oro e argenti sacri. Nessuno era mai stato a casa sua, ma tutti sembravano conoscere i segreti innominabili della sua vita. E le ragioni inconfessate della sua ricchezza.
    Quando gli altri contadini della zona, afflitti dalla siccità e costretti a vivere su terreni screpolati e duri come roccia, faticavano a fare spuntare qualche filo d'erba o a portare a maturazione i vitigni bruciati dal sole, Pavane percorreva ettari di terreno lussureggiante, in cui cresceva di tutto, anche foglie d'oro, dicevano gli invidiosi.
    Senza dubbio c'era qualcosa di abominevole in quell'uomo. Come minimo aveva stretto un patto col diavolo, che gli aveva fatto trovare fonti e pozzi di acqua potabile, a un palmo sotto terra. In questo modo più i suoi concittadini si impoverivano e più egli si arricchiva.
    Per rendere più misteriosa e agiata la sua esistenza, reclutava il personale di casa, soprattutto governanti e giovani cameriere, in zone lontane dal paese.
    Già due preti e un prevosto si erano avvicendati all'altare della piccola chiesa, edificata in uno stile romanico stratificato da diverse generazioni di devoti. Ma nessuno di questi servitori di Dio, l'aveva mai visto presenziare alle funzioni religiose, né aveva ricevuto da lui un solo obolo per i poveri o per i restauri necessari alla Sacra Casa.
    Le voci erano diventate un rumore assordante: «Ha partecipato ai riti pagani, in gioventù, quando nelle campagne si propiziava la fertilità con raduni pagani, orge priapesche, e cavalcate sataniche in onore di divinità femminili oscene, come Perchta, Holda e Diana».
    «Era il capo di una setta crudele, che uccideva soprattutto giovani vittime, per offrirne i corpi smembrati ai demoni della terra e dell'aria.»
    «Il suo fisico, nonostante l'età avanzata, continua a sembrare prodigiosamente giovanile come se un incantesimo lo avesse preservato dalle malattie e dagli inevitabili graffi del tempo.»
    «I suoi occhi li avete notati? A volte sembrano lanciare scintille di cattiveria infernale.»
    «Un cacciatore ha seguito sulle sue terre strane tracce di zoccoli biforcuti. E c'è chi è pronto a giurare che resti di vestiti femminili, insanguinati, sono stati recuperati su una pira abbruciacchiata a forma di piramide. Reliquie blasfeme!»
    «Bisogna correre ai ripari. Chiamare i bargelli. Andare in città. Mettersi in contatto col balivo. O col vescovo: meglio un porporato.»
    «Agire. O la maledizione si abbatterà sulle nostre anime immortali, dopo avere distrutto come un fulmine le nostre case e i nostri campi già provati dalla sfortuna, o dal malocchio.»
    Il prevosto, uomo di pace e di sagge parole, aveva promesso che si sarebbe recato di persona dal vescovo. «Ma prima, fedeli parrocchiani, dobbiamo, come ogni anno, onorare il Supremo, innalzando l'albero della Chiesa.»
    Questo rito che veniva preceduto da una processione, cui partecipava l'intero paese, e a cui assistevano forestieri e pellegrini, era nato oltre un secolo prima. Che ci fosse in esso qualche residuo pagano era evidente; ma anche gli alti prelati, di fronte «a tanta manifestazione di fede da parte del popolo», vedevano in questa tradizione essenzialmente il potere propiziatorio della preghiera, «la più pura e spirituale, capace di volare direttamente fino a Dio».
    Le origini della processione, sospesa fra magia e fanatismo, erano ormai coperte dalla patina del tempo che tutto perdona e trasforma.
    Il tetto della Chiesa, durante una notte di tempesta, aveva preso fuoco. Era costruito con travi e tavole di legno stagionato, camolato dalle piogge ed essiccato dal sole.
    Forse fu un fulmine vagabondo, forse un demone insonne.
    Qualcuno pensò a un miracolo. Ma una chiesa che brucia «non è mai un miracolo»; al contrario, spiegò il parroco dell'epoca, «anche se può apparire tale, è un segno sicuro della malvagità e della malizia di Lucifero».
    Si era alla fine del 1400 e il buon sacerdote, dotato di una certa cultura, aveva letto diversi libri sul diavolo, estratti del famoso "Directorium" e dal "Malleus Maleficarum".
    Una volta spente le fiamme con l'aiuto - questo sì miracoloso - di un improvviso acquazzone, si vide che la chiesa non aveva subito gravi danni, a parte lo squarcio aperto al di sopra della navata.
    Boscaioli e carpentieri si misero all'opera con zelo. In poche settimane il tetto era stato ricostruito, con una robusta copertura di tegole cotte, che attrassero subito alati messaggeri del cielo: tortore e colombe.
    Aveva vinto il Bene! Il collegio del villaggio riunito in assemblea plenaria, pose all'ordine del giorno la mozione di operai e muratori che chiedevano di innalzare 'il fiocco' sul tetto della Chiesa, come usava quando una casa era terminata.
    Un giovane pastore, noto per la dirittura morale e la qualità dei suoi formaggi di capra chiese la parola.
    «Come il fulmine o altra forza negativa ha tentato di distruggere la casa di Dio e con essa il ricetto delle nostre preghiere, io propongo umilmente alla comunità che il detto fiocco sia issato ogni anno su un tronco di altezza pari alla chiesa stessa, portato in processione, e benedetto, come protezione e alleato fra la natura amica, la fede del nostro popolo e la magnanimità divina. Esso tronco dovrà essere piantato nella terra, come un vero albero, e appoggiare simbolicamente la nostra chiesa per tutto il tempo che è stato necessario alla sua riattazione.»
    La proposta del giovane fu accolta con entusiasmo. A nessuno venne in mente che il rito dell'albero sacro era in vigore da tempo, in diverse regioni iperboree. Né si dubitò che lasciare immerso il tronco nella corrente, per la durata di un anno, trasportarlo a spalle come un pilastro e issarlo a forza di braccia, con il fiocco arboreo svettante, avesse a che fare con pratiche della fecondità non propriamente cristiane. O addirittura con celebrazioni falloforiche.
    Da allora, con la benedizione ecclesiastica, l'albero della fede fu tagliato, irrigato e indurito dal fiume, trasportato, issato e venerato ogni anno accanto al simbolo della presenza divina.
    Al tramonto, anche in quell'anno che si approssimava alla metà del 1500, i giovani più validi del villaggio stavano trasportando la stele lignea, alta più di 20 metri e talmente grossa che un bambino non riusciva ad abbracciarla. Era l'albero maestro di una nave inesistente, che non avrebbe mai conosciuto il mare.
    Un attimo prima della sua erezione, incoronata dalle ramaglie verdi, qualcuno, guardando il cielo che virava al blu di Prussia, gridò: «E' lui, lo stregone, lassù, vola sui tetti...»
    Molti videro o furono convinti di scorgere una figura coi capelli al vento, un sorriso satanico aperto su denti belluini in un volto senza età. Monsieur Pavane a cavalcioni di un capro.
    Molti ne udirono la risata agghiacciante e una donnetta gridò: «Il capro, Iddio mi perdoni, ha urinato più volte, sulle sacre tegole, e sull'albero sacro, prima di lanciarsi verso l'orizzonte.»
    Il rito fu egualmente compiuto, ma la tensione nel villaggio crebbe ogni giorno di più.
    Qualche giorno dopo un pastore arrivò trafelato nella piccola e strapiena bettola del villaggio, dove i lavoratori bevevano quattro soldi di vino leggero, magari provenienti dalla seconda o terza pigiatura delle uve di Pavane, lo stregone.
    «Ora non è più possibile attendere» urlò il brav'uomo, conosciuto da tutti per il fatto di lavorare sodo, bere poco e parlare ancora meno.
    Gli avventori si accostarono, incuriositi, fino a circondarlo.
    «Che cosa è accaduto di tanto drammatico, Mathieu?» lo interrogò un produttore di formaggio che gli comprava in blocco il latte delle sue capre.
    «Non so. Lupi, direi. O un solo lupo, ma di dimensioni enormi. Feroce, e vizioso...»
    «Vizioso?»
    «Sì, mi ha sgozzato due agnelli, per berne il sangue, e ha morsicato in più parti il mio capro, per il gusto di fargli del male. E' quello stregone, vi dico, la causa di tutto. O qualche succuba insieme a lui.»
    «In effetti» intervenne un bevitore, «i lupi da queste parti si sono visti di rado; sulla montagna, forse, ma in questa stagione non scendono a valle, vicino a un paese poi...»
    «E i tuoi cani?» domandò intrigato un altro.
    «Niente, non hanno neppure abbaiato, eppure quelli non temono il diavolo.»
    «Il diavolo?» Un uomo vestito di nero, che nessuno conosceva nel villaggio, si avvicinò.
    Indossava stivali da cavaliere e ostentava al panciotto un orologio inanellato da una catena d'argento.
    «Forse proprio lui, il diavolo, hanno sentito i vostri cani.»
    «Vi dico, è lo stregone maledetto» ribadì agitato Mathieu, bevendo in due sorsi una misura intera di vino.
    «Offro io» disse all'oste il commerciante. «Mescete ancora: non tutti i giorni capita di avere a che fare col diavolo.»
    Quella notte il paese si preparò ad assistere a una tregenda. Molti si recarono in chiesa, per raccogliersi insieme al prete in una veglia di preghiera.
    Altri batterono il limitare delle campagne buie, impugnando forconi, badili e rudimentali alabarde. Si sentì l'ululato di un lupo o forse di più lupi.
    Ma nessuno, appena sorta l'alba, riuscì a trovarne le tracce. Neppure un resto di sterco. Anche i cani sguinzagliati sul terreno, fino alle mura che circondavano la proprietà dell'ormai innominabile Pavane, tornarono sfiancati e muti.
    Fu lo straniero, vestito di nero con l'orologio d'argento, a fare una proposta agli uomini del villaggio che presidiavano la croce, trascorrendo più ore nella bettola che nelle masserie o nei campi. Con grande soddisfazione dell'oste. La voce che nel villaggio ci fossero dei lupi maledetti, o addirittura dei demoni con fattezze lupine, si era propagata velocemente nella regione. Sfaccendati, avventurieri e soldati di ventura senza ingaggio marciavano sul villaggio stregato, pronti a mettersi al servizio, che speravano ben ricompensato, dei bravi paesani e della loro chiesa.
    Era sorto, immediatamente, un nuovo mercato all'aperto, e il furbo taverniere aveva requisito a parenti e amici tutte le stanze reperibili per poter mettere i forestieri a pensione. Non si era vista una tale sarabanda negli ultimi venti anni e molti paesani provavano la vertigine, circondati da giostre di cavalli, mulinelli di soldati con l'armatura, cacciatori di lupi armati di frusta e accompagnati da molossi feroci. Lo straniero teneva testa a tutti, bevendo le sue birre, una dopo l'altra. Sembrava che le sue tasche, come la sua sete, non avessero fondo. «Oltre il limitare» il termine gli piaceva e lo usava appena possibile «non c'è altro che notte e geenna, turpitudine, crimini inimmaginabili. Bisogna riuscire a seguire quella belva, uomo o demone che sia. Coglierla nel delitto. Immobilizzarla e ucciderla. Subito. Solo così tornerà la pace nel nostro territorio.»
    Molti annuirono. «Per il momento basta un testimone. Andrò io solo, concluse il cacciatore di streghe. E se lo prendo mentre si trasforma in belva, o compie uno dei suoi efferati delitti, ve lo riporterò qui in catene, sicuro come mi chiamo Andrà», affermò l'uomo senza paura. Rimase via per due giorni e due notti.
    Il cavallo saettò a briglia sciolta oltre il cancello della fattoria, montato a pelo da un aitante cavaliere.
    Poteva essere il suo uomo: lo avevano prevenuto che Pavane, pur essendo anziano, aveva il potere diabolico della metamorfosi. L'apparente giovanotto, dopo avere fatto qualche giro intorno all'edificio entrò nel bosco.
    Qui, smontato agilmente, si spogliò del tutto, poi si avvicinò guardingo a una grossa pianta secolare. Dopo aver bussato sul tronco, fece ruotare un pezzo di corteccia, spessa e mimetizzata come una porta segreta. Uscito dal nascondiglio vegetale era irriconoscibile. Una immensa pelle di lupo, fissata al collo da un fermaglio, lo copriva interamente, mentre la chiostra paurosa della belva gli nascondeva il volto.
    In quel momento una fanciulla dalla bellezza solare, cavalcando discinta come un'amazzone, impennò il suo stallone e con un balzo scivolò accanto all'uomo lupo. Si abbracciarono e si unirono sotto l'albero cavo, mentre in lontananza si udiva un coro di latrati e ululati.
    Dopo molti amplessi, la fanciulla fischiò. Il suo cavallo si avvicinò docile, nero nel nero della sera.
    L'uomo tornò all'albero cavo, e fu allora che il cacciatore gli piombò addosso, brandendo una daga affilatissima.
    Nel centro del paese subito la folla li sommerse.
    «Ecco la prova» disse l'uomo nero, agitando la pelle di lupo, immensa, che prima ricopriva la sua preda.
    L'uomo, i cui occhi fiammeggiavano di rabbia, disse: «E' roba mia, ridatemela.» Rivestito alla meglio con brache grossolane e una corta tunica di lana, l'uomo lupo fu condotto nella casa di un pio cristiano, che faceva il panettiere.
    Il prete, visibilmente emozionato, giunse poco dopo facendosi largo tra la folla, i parrocchiani e i curiosi.
    «Eccolo, è lui» gridavano i presenti, stipati nella stanza e nel forno del panettiere. «Aveva la pelle addosso. Fate parlare il cacciatore di streghe che l'ha catturato.»
    «Questa è la sua pelle quando si trasforma in lupo» disse l'uomo vestito di nero. L'ho visto fornicare con una donna che si era trasformata in lupa, mentre decine di ululati demoniaci sembravano festeggiare le sue nozze depravate.»
    «Ma... ma» il prete aveva il doppio mento che gli tremava per l'emozione «Era davvero diventato un lupo, voglio dire, con le zanne e tutto il resto?»
    «Assolutamente» rispose l'uomo in nero. «Ora sta a voi interrogarlo e deciderne la sorte, o consegnarlo alla giustizia civile.»
    «Dunque voi siete Monsieur Pavane» lo squadrò con incredulità il prete, valutando rapidamente che i capelli gli occhi e la pelle di quell'uomo erano più congeniali a un trentenne che a un settantenne.
    «Così dicono» rispose il presunto licantropo.
    «E dite, questa pelle è vostra?»
    «E' la mia, diamine. E adesso la rivoglio indietro.»
    «Questa poi.» Scese un silenzio di piombo su quella bestemmia.
    «Fuoco, fuoco» gridò qualcuno. «Purificazione.»
    «Giusto.» Il fornaio accese rapidamente il camino dove metteva a cuocere i pani, un vano grande all'incirca come un doppio loculo.
    «Sì, bisogna incenerire il male.»
    «Miei cari fedeli, non possiamo fare nulla, così sui due piedi. Occorre istruire un processo e avvertire l'autorità» ribatté il prevosto.
    «Ma è un diavolo» disse una vecchia devota. «Se facciamo passare ancora del tempo lui svanirà nel nulla; non è neppure legato con catene benedette.»
    «Ha ragione, non è un essere come noi» affermarono in coro decine di voci. «Bisogna che decidiamo la sentenza, prima che il suo padrone cornuto o qualche altra potenza sulfurea venga a liberarlo.»
    «Ma non abbiamo l'autorità e io stesso non sono giudice...»
    «Bruciamo la sua pelle, intanto» disse il cacciatore di streghe. L'uomo chiamato Pavane tentò di afferrarla mentre volava sopra la sua testa. Ma la pelliccia in un attimo fu tra le mani del panettiere che disse, come se stesse per compiere un rito sacro: «Il mio forno purificherà ogni cosa.» E gettò la pelle maledetta nel forno.
    L'uomo lupo ebbe uno spasimo, il suo viso si contrasse come se fosse stato colpito da una frustata.
    A quella vista molti esclamarono: «Stregoneria, stregoneria certa.»
    Il prete, che si chiamava Don Mulin, pregando, trasse dalla tasca profonda del suo abito talare, un libro a stampa, con la copertina nera.
    «In effetti» disse, «secondo questo testo ortodosso e ispirato, non solo streghe ma stregoni possono assumere forme bestiali. Però chi può sapere se il succubo del diavolo sia lui, o la lupa.»
    L'uomo in nero alzò le spalle: «E perché non tutti e due? Adesso teniamo lui, lei la prenderemo dopo: è solo questione di tempo.»
    Un mormorio di approvazione corse tra la folla. «Può darsi», continuò il prete, procedendo nel suo intento cristiano di calmare gli animi e di giudicare con tutti i crismi della legalità e dell'ortodossia. «Ma ci vogliono i testimoni, le prove, le accuse, la confessione. Il libro parla chiaro sul modo di emettere sentenza. Anche se la materia è complessa. Dunque: 'Come quarta pena, se qualcuno sorpreso nel delitto di eresia, non voglia rivolgersi immediatamente alla fede e abiurare, bisogna bruciarlo subito'.»
    «Visto?» esclamò con grande soddisfazione il panettiere. «Bruciare!»
    «Un momento. Qui è anche scritto: 'Tuttavia si agisce in maniera più mite con loro dopo l'abiura, come si dirà nella terza parte di quest'opera'.»
    «Chiacchiere teologiche, bisogna venire al punto», replicò il cacciatore di streghe.»
    Il prete si grattava perplesso la testa calva: «Ma, signori, devo sottolineare per scrupolo» continuò il religioso, «che nel libro degli inquisitori si parla soprattutto della strega donna.»
    «Dettagli» sentenziò il cacciatore in nero.
    «E' tutto in regola, padre» aggiunse il panettiere che si sentiva investito, in quel momento, di un potere sovrannaturale, infallibile. «Noi siamo testimoni e giudici. Lui si è accusato da solo col proprio comportamento. Senza contare ciò che ha visto e riferito il signore rispetto alla strega, al loro contatto lussurioso e alle trasmutazioni fisiche...»
    «Andrà Adams, questo è il mio nome» disse compito l'intrepido cacciatore di streghe.
    «Dicevo, messer Adams, ora che è stata bruciata la pelle bestiale di questo demonio, non resta che emettere la sentenza. E comminare la pena.»
    «No» gridò il prete, «non potete!»
    «La mia pelle, ridatemi la pelle» ripeteva come un ossesso l'uomo chiamato Pavane, che forse era un licantropo o forse uno stregone.
    Ma nessuno poté appurarlo realmente perché decine di braccia lo afferrarono, lo sollevarono come un fuscello e lo gettarono nel forno, insieme alla sua pelle diabolica. Una fiammata, un odore pungente di grasso bruciato. E un po' di fumo.
    «Il mio è il miglior forno della regione» disse il panettiere ai presenti, che annuirono, soddisfatti.
    'Sarà forse un eccesso di scrupolo', pensava Don Mulin, 'ma per avere la coscienza netta, io e la mia comunità di fedeli dobbiamo andare a fondo di questa vicenda. Stendere un rapporto da inviare all'autorità vescovile. O non fare nulla, dato che la giustizia umana ha già compiuto il suo corso.' Si segnò. 'Ma almeno di fronte a quella divina bisogna rendere conto delle proprie azioni'.
    Venne organizzata una spedizione, formata dal parroco, da alcuni robusti paesani e dall'uomo in nero.
    Appena oltre la cinta, il cui cancello venne forzato dal fabbro, la dimora del 'fu Pavane' apparve in una luce diversa. Non più fattoria ma maniero, con una doppia scalinata che conduceva all'ingresso piastrellato di marmo.
    «Però, sembra un castello», commentarono i paesani, un po' intimiditi. Il prete si pose alla testa del gruppo brandendo un aspersorio, con cui faceva cadere a destra e a manca una pioggia sottile di acqua benedetta. Gli altri, si tenevano allineati al suo passo grassoccio.
    Giunti alla porta non dovettero neppure forzarla: era aperta.
    Dentro, rimasero abbacinati dai saloni ornati da stucchi dorati e da scalinate di marmo. Tendaggi di velluto pesante coprivano finestre a crociera, i cui vetri di fattura perfetta splendevano come brillanti.
    Rimasero tutti a bocca aperta, specie perché, come fu notato dall'uomo in nero, si trattava di una dimora fastosa ma non c'era un solo mobile, quasi fosse disabitata da sempre. «Per altro verso» notò il barbiere, «non si vede in giro un pelo e neppure un briciolo di polvere...»
    Che fosse questa una delle molte dimore di Satana? Il prete sperava di no. Non avrebbe saputo come comportarsi se lo avessero incontrato. Si limitò a esorcizzare la casa con l'acqua benedetta mentre pregava, agitando le labbra e il doppio mento e rivoli di sudore freddo gli scendevano dalle ascelle.
    Ciascuno pensava a come avrebbero dovuto comportarsi. Poi, tra l'assordamento mentale e gli sguardi paurosi, udirono, ravvicinato, un ringhio seguito da un ululato rabbioso e tremendo.
    Anche i più coraggiosi sentirono rizzarsi i capelli in testa. L'uomo in nero mise mano alla daga. Gli altri, per rassicurarsi, impugnarono i diversi utensili del mestiere che avevano con sé. Il prete si aggrappò alla croce che gli pendeva sul petto, e mormorò il primo scongiuro che gli venne in mente. Una preghiera che veniva scandita in processione per proteggere la comunità dalla folgore e i raccolti dalle tempeste:
    «Sainte Barbe, Sainte Fleur / La croix de mon Seigneur, / Quand le tonnerre tombera, / La sainte Vierge nous gardera».
    Quindi, come un solo uomo, quasi si fossero accordati telepaticamente, i coraggiosi esploratori si slanciarono verso la porta, nell'aria luminosa del mattino. Temevano, forse, di essere avvampati, da un istante all'altro, da qualche fiammata infernale.
    Nel cortile uno spettacolo agghiacciante li bloccò.
    Una lupa enorme leccava con affetto amorevole un lupetto fulvo, dagli occhi appuntiti e fiammeggianti. Guardando gli estranei le due belve digrignarono i denti ed emisero ringhi eloquenti. Poi, mentre il sole balzava in mezzo al cielo, sopraggiunse una carrozza padronale nera, trainata da due cavalli bai.
    A cassetta un uomo vestito di bianco, il cui volto era quello del cosiddetto Pavane. L'uomo li fissò con uno sguardo magnetico. I paesani si sentirono attraversati a uno a uno da una lama incandescente.
    L'entità inverosimile si tolse il cappello, ridendo, e gridò al suo tiro e ai suoi lupi - ma erano davvero lupi? - «Ahiò, ahiò.»
    In un lampo il mirabolante equipaggio scomparve in una bolla di luce.


    CAUSARE FENOMENI SOVRANNATURALI
    Ogni fenomeno inspiegabile, o apparentemente sovrannaturale, poteva diventare oggetto di inchiesta inquisitoria. Trasformarsi in processo, tortura e questione razionalmente demonologica.
    <b>UNA GRANDINE INNATURALE E MAGNIFICENTE

    «Sul modo in cui [le streghe] suscitano grandinate e tempeste e sono solite produrre fulmini sugli uomini e gli animali.»
    «E' noto che fanciulle impuberi, di otto o dieci anni, hanno suscitato tempeste e grandinate, e ciò non sarebbe possibile se le bambine non fossero state consacrate al diavolo dalla madre strega con l'offerta sacrilega di un tale patto. Infatti, di per sé, le fanciulle non potrebbero fare cose tali, che comportano il rifiuto della fede, come streghe adulte, dal momento che non hanno forse conoscenza di alcun articolo di fede. Di queste imprese dovremo fare qualche esempio.”
    In una regione della Svevia, un contadino decise di andare a sorvegliare i campi seminati con la piccola figlia di appena otto anni, riflettendo fra sé sulla necessità della pioggia, a causa della siccità della terra, e poiché ne desiderava la caduta, disse: 'Ahimè, quando verrà la pioggia'. La fanciulla, ascoltate le parole del padre, disse, con la semplicità del suo animo: 'Padre, se tu vuoi la pioggia, farò in modo che essa venga al più presto'. E il padre: 'Da dove hai appreso a procurare la pioggia?'. La bambina rispose: 'So suscitare non solo la pioggia ma anche le grandinate e le tempeste'. Il padre allora le chiese: 'Chi ti ha insegnato?'. 'Mia madre', rispose, 'ma in verità mi ha proibito di dirlo a qualcuno'. Allora il padre nuovamente: 'E come t'insegnò?'. Rispose: 'Mi ha mandato da un maestro che ogni ora posso avere a disposizione per ogni richiesta'. E il padre: 'L'hai mai visto?'. 'Ho visto alle volte uomini che entravano e uscivano da mia madre e, quando le chiesi chi erano, mi rispose che erano i nostri maestri, grandi e preziosi sostenitori, ai quali aveva offerto e affidato anche me.
    Il padre, atterrito, le chiese se poteva sul momento provocare la pioggia e la fanciulla: 'Lo farò se ho un po' d'acqua'. Allora il padre condusse per mano la bambina al torrente: 'Sì', disse, 'ma solo sopra la nostra terra'. La bambina allora mise la mano nell'acqua e l'agitò pronunciando il nome del suo maestro, secondo gli insegnamenti della madre. Ed ecco allora che la pioggia bagnò quel campo. Dopo aver visto ciò, il padre le disse di far grandinare, ma solo su uno dei loro campi.»
    La chiamavano Lapine, senza cattiveria. Il suo labbro leporino, anzi, piaceva molto ai bambini, perché quando sorrideva era identica a un coniglietto biondo. Sempre gentile e allegra, la giovane faceva la lavandaia, la cucitrice e coltivava nel suo orto molti vegetali e fiori dall'aspetto inconsueto. Crescevano pomodori piccoli come ciliegie e cavolfiori bianchi, grandi come cespugli.
    La fanciulla leporina dedicava particolari attenzioni a un praticello di camomilla, che chiamava affettuosamente "Anthemis", 'fiorellino', secondo il vezzeggiativo greco. Ogni tanto collocava accanto all'erba altre piante e anche dei cavoli, perché, sosteneva di fronte al suo piccolo uditorio: «La camomilla ha molte proprietà terapeutiche. Ma sa consigliare, anche, il matrimonio giusto. Il cavolo è molto timido, e non sa mai chi sposare. Così la 'matricharia'» rideva maliziosa come un leprotto, «gli fa da madrina. E tutti sono felici».
    A volte distribuiva ai bambini delle fiale, contenenti l'olio estratto dalla generosa camomilla. «Portatelo a casa, se qualche anziano ha dolori alla testa e alle giunzioni. O soffre di coliche. E qualche giovane mamma prova i crampi. Andate, ora» li salutava gentile, «ho molto da fare.»
    Tra i suoi amati vegetali i più stupefacenti erano alcuni fiori che chiudevano, scontrosi, i petali, appena li toccavi. E una pianta dal lungo collo oscillante, che spalancava la corolla fiammeggiante di stami come una bocca insaziabile. I bambini passavano ore a osservare la rapidità con cui la pianta carnivora imprigionava e inghiottiva, zac-zac, moscerini, mosche e vespe che avevano la sventura di passare accanto al suo cono vorace.
    Lapine amava gli esperimenti, gli incroci dei frutti, gli innesti dei fiori, l'ibridazione delle piante, i numeri infiniti, le corde che saltano, e gli astri ammiccanti. Aveva sempre una storia fantastica in serbo per chi intendeva ascoltarla.
    Pur essendo considerata una ragazza affidabile, e lavoratrice, la popolazione del piccolo villaggio la vedeva come un essere 'bizzarro'. Quando successe il 'fatto inspiegabile', molti si fecero il segno della croce, per esorcismo. Ma la maggior parte si limitò a dichiarare: «Un altro scherzo di quella matta!».
    Tuttavia, un contadino zelante andò dal prete e insinuò che la ragazza poteva fare 'miracoli'.
    «Pensate, le sue galline bianche e anche quelle nere - mai viste delle bestie così perfette dalle nostre parti - hanno cominciato a depositare delle uova incrostate.»
    «Incrostate, di cosa?»
    «Beh, vi sembrerà impossibile, ma non parlo di quello che si immagina. Incrostate d'argento, dico. Al sole brillano come gioielli. Le ho viste coi miei occhi, mentre Lapine le contava in un cesto foderato di velluto. Velluto, pensate!»
    «La luce a volte fa strani scherzi, ma se esistono queste uova preziose, bisognerà controllare la faccenda da vicino.»
    «Non è tutto, signor prevosto» sembra abbia confidato il delatore. «La giovane, che è molto giudiziosa e risparmiatrice, ha anche un asino. Che usa per la raccolta della legna e ogni tanto affitta a pagamento per piccoli trasporti.»
    «E allora, non mi direte che anche lui è 'sbalorditivo'!»
    «Non ho visto coi miei occhi, ma si mormora che dentro le sue budella ci sia dell'oro. Sapeste come gli parla la ragazza! E come lo tratta: ancora un po' lo riveste di damasco! E' normale? Voi che siete colto, non pensate che potrebbe essere una forma demoniaca?»
    Il vecchio prete, poco ferrato in questioni teologiche, borbottò qualcosa, poi licenziò il parrocchiano, pensando 'Rogne e basta. Ma cosa va a pensare la gente! Uova d'argento e budella d'oro... Magari portassero qualche elemosina in più alla Chiesa! '
    Non erano trascorsi cinque giorni che un nuovo straordinario fenomeno si verificò nel piccolo villaggio, sperduto tra campi poveri e radi alberi da frutto.
    «Una grandinata, sissignore, accadde all'improvviso, quasi senza nuvole e col cielo acceso dai riflessi del sole.»
    «Non è poi un fenomeno inspiegabile.»
    «No, anche se affattura le poche vigne, le sementi, e rattrappisce i cristiani. Ma la cosa più straordinaria fu che nel cortile della Lapine cadde, oltre al ghiaccio, una coltre di piccoli frammenti d'argento, che si mischiarono al terriccio. Tutti accorsero, i bambini in primo luogo. Raccoglievano manciate di scaglie, si riempivano le tasche, le mettevano sulla lingua. Lapine rideva e si dava grandi manate sulle cosce come fosse pazza, o ubriaca. Anche l'asino, mi hanno detto, rideva.»
    «Insomma: grandinate di argento, uova d'argento, sterco d'oro...»
    Il prete si sentì in dovere di mettere al corrente un superiore degli accadimenti 'inspiegabili e mirifici' che gli avevano riferito. 'La ragazza doveva essere convocata e interrogata, anche se poteva trattarsi di semplice diffamazione, come asserisce il "Malleus",' pensò il giudice del vescovato, un domenicano che si occupava anche di esorcismi. Così fu fatto. La ragazza, a parte il labbro leporino, che non era considerato diabolico in alcun testo, e le conferiva una graziosa aria faunesca, parve al dottore sensata e intelligente.
    «Vede, eccellenza» disse «io studio i fiori, le stagioni e la natura. Per questo posso apparire 'lunatica', ma sono così fin da bambina. Da allora bado a me stessa perché la mia famiglia è andata in cielo. Quanto alle voci che circolano sul mio conto, 'incantesimi e malocchio', ebbene posso spiegarvi tutto. Trovai tempo orsono un giacimento di scaglie argentate vicino al torrente. Ne portai due sacchi a casa e vidi che le mie galline di razza le becchettavano volentieri, perché quella sostanza, passando per gli intestini, rende le uova più robuste e anche più belle. Ne ho tenute diverse, dopo averle svuotate del contenuto con un chiodo. Se volete posso offrirvene uno...»
    «Magari le vedremo» rispose con tono gentile l'esorcista. «Ma parlatemi, ora, della grandine argentata.»
    «Della grandine non so. Quanto ai 'lustrini' mescolati ai chicchi di ghiaccio si trattò di un semplice gioco. Quando cominciò a grandinare mi prese il ghiribizzo e lanciai nell'aria che vorticava manciate di quella sostanza lucente. Fu uno spettacolo molto divertente. Il giorno dopo sono tornata al fiume, ma non ho più trovato traccia del giacimento, come se l'acqua avesse spazzato via tutto.»
    «Ritenete che fosse argento?»
    «Non lo so, eccellenza, ma non credo. Ho visto nella città di Avignone, in un grande mercato, del minerale analogo e il venditore, che lo commerciava per due soldi, mi disse che il suo nome è 'mica'. Si tratta di un cristallo a strati, usato dai vasai per impreziosire i boccali, o anche i muri. Ebbene, io penso che la 'grandinata' e le mie 'uova d'argento' siano stati un'illusione, generata da questo minerale raro ma non prezioso.»
    «Uhmmm, forse avete ragione. In ogni caso» disse severo il domenicano, «per provare la vostra buona fede, e fare tacere le chiacchiere della brava gente, dovrete fare pubblica abiura, nella chiesa e in piazza, giurando di non avere mai suscitato grandini tempeste o altri sortilegi. E, soprattutto, di non conoscere il segreto dell'argento e dell'oro filosofale.»
    «Lo farò, buon padre» giurò Lapine.
    Dopo la cerimonia di purificazione i paesani dimenticarono i fatti mirabolanti e sospetti che avevano colorato il grigiore della loro esistenza. Vecchie madri e puerpere, tornarono ai benefici della generosa camomilla, ringraziando la fortuna di avere tra loro una guaritrice come Lapine.
    Fiori e frutti xerofiti, nascosti da un'alta siepe, continuarono a prosperare nel suo favoloso orto botanico. Mangiavano insetti, parlavano tra loro, consigliavano matrimoni ibridi e cantavano con Lapine. Mentre l'asino ogni tanto scoppiava a ridere, indisturbato.
    «Infine nella stessa diocesi, nel territorio della Foresta nera, una strega disse al boia, mentre la issava sul mucchio di legna, preparato per il suo rogo: 'Io ti darò la ricompensa' e così gli soffiò sul viso e subito colpito da una orrenda lebbra su tutto il corpo, non sopravvisse che alcuni giorni. [...] Abbiamo spesso constatato che l'epilessia (o morbo caduco) aveva afflitto certe persone a causa di uova sotterrate insieme a corpi di morti. [...] E da quelle [streghe] dissepolte con altre cerimonie che non sono da raccontare, erano somministrate a qualcuno talora nelle bevande, talora nel cibo.»


    MEDICINA, INQUISIZIONE E SCIENZA DEL DIAVOLO
    «A uno di noi è stata notificata un'impresa di questo genere: uno dei cittadini più ragguardevoli della città di Spira aveva una moglie testarda [...] che faceva di tutto per molestarlo con parole oltraggiose. [...] Lui a queste gravi parole stese la mano, senza l'intenzione di colpirla, ma, come la sfiorò con la mano aperta sulla spalla, subito cadde per terra e perse i sensi, e per più settimane giacque a letto, affetto da una malattia molto grave. Si può ben vedere come quella malattia non sia capitata per un difetto naturale ma per una stregoneria della moglie.”
    La medicina ufficiale possedeva pochi rimedi naturali, alcuni prodotti galenici, scarsi protocolli, ricette ereditate dall'epoca classica, dagli arabi dell'undicesimo secolo, o da una 'panacea' esorcistico-religiosa. La ricerca si era ritirata tra le mura dei conventi.
    In Occidente si continua a distinguere fra malattie ordinarie e patologie diaboliche.
    «Ci sono taluni che, partendo da un'esperienza pratica riconoscono la cosa nel modo seguente: tengono del piombo fuso al di sopra del malato e lo versano in un catino pieno d'acqua: se all'indurirsi del piombo si scorge un'immagine, allora giudicano che si tratti di stregoneria. [...] I medici possono indicare a seconda delle circostanze, cioè in base all'età o alla complessione sana ma poi improvvisamente mutata, che la malattia non capita per un difetto naturale, ma per qualcosa di estraneo; e se questa causa esterna non è un'infezione venefica, che riempia il sangue e lo stomaco di umori maligni, allora, per esclusione, hanno elementi sufficienti per indicare che si tratta di stregoneria. In secondo luogo si ha stregoneria quando il male risulta incurabile, al punto che il malato non può essere alleviato da alcuna medicina ma, anzi, si constata che va peggiorando. In terzo luogo quando talvolta capita così all'improvviso che lo stesso giudizio dell'inferno orienta verso la stregoneria.»
    La Chiesa sorveglia e punisce, sia le donne che praticano illegalmente la medicina, sia i 'barbieri-chirurghi' che versano il sangue e sono considerati volgari praticoni. Ma soprattutto a monaci e religiosi sarà interdetta la pratica medica e chirurgica con una decisione conciliare del 1130. Molti conventuali, infatti, forti delle conoscenze apprese dai testi classici e arabi, abbandonavano il chiostro e la preghiera per intraprendere la remunerativa professione di guaritori.
    In Francia non solo le donne furono escluse dagli studi scientifici, ma anche gli uomini sposati, considerati impuri perché «hanno rapporti carnali con le donne».
    «Nel tempo in cui avveniva l'Inquisizione sulle streghe nella città di Innsbruck, ci fu riferito tra gli altri questo caso. Una persona onesta, sposata con uno dei domestici dell'arciduca, depose davanti al notaio [...] che al tempo della sua giovinezza era stata a servizio presso uno dei cittadini. Ora accadde che la moglie di quest'uomo soffrisse di un forte dolore di testa e che una donna, presentatasi per la sua guarigione, volesse mitigare il dolore con le sue preghiere e certi riti. 'Io', disse, 'osservavo attentamente le sue pratiche e notai che, contrariamente alla natura, l'acqua versata in una bacinella, passava in un'altra pentola e tutto ciò con cerimonie che qui non è il caso di raccontare. Ma vedendo che con queste pratiche non era mitigato il dolore di testa nella signora, piuttosto adirata dissi alla strega: Io non so di che cosa vi occupiate, ma certo non fate altro che cose superstiziose e ciò per il vostro tornaconto'. [...] Ciò che seguì lo provò. Il mattino del terzo giorno [...] un forte dolore invase il mio corpo [...] quindi mi pareva come se mi fossero versati continuamente sulla testa carboni ardenti. Infine, sulla pelle del corpo, dalla testa alle piante dei piedi, non c'era spazio, quanto una punta di spillo in cui non vi fosse una pustola piena di pus bianco.»
    Dopo effimere parentesi, la donna della medicina torna nell'ombra. E i suoi saperi e strumenti scientifici vengono demonizzati. Michelet non è fra gli unici ad affermare che 'all'epoca dei sabba' le ostetriche provocavano aborti mediante bevande particolari e abluzioni di acqua gelida. Le uniche contraccezioni conosciute e accettate erano offerte da donne ad altre donne. La strega si interponeva fra la vita e la morte.
    «Nessuno arreca più danni alla Chiesa delle ostetriche». E' la levatrice di campagna, la 'medica' del villaggio, la guaritrice dei poveri, che conosce l'uso, le dosi e gli effetti dell'atropina, che può essere droga allucinogena, medicina antispasmodica o rimedio oftalmico. Manipola la digitale purpurea, che regola e altera le funzioni cardiache, ma può anche avvelenare o produrre visioni. Distilla il laudano che addormenta e calma i dolori.
    Tra i rimedi alternativi delle levatrici si annoverano: cataplasmi di patata grattata per guarire le bruciature, mentre impacchi di ragnatele mescolate al grasso di un vecchio cappello sono miracolosi per cicatrizzare piaghe e ferite. Contro le intossicazioni è ottima l'acqua proveniente da neve fusa, raccolta in inverno. Per sconfiggere l'etilismo è sufficiente fare bere ripetute volte del caffè mescolato a sale grosso. Esistono poi medicamenti a base di erbe e composti vegetali per guarire le contusioni, lenire le punture di insetti e tafani. Anche in campo neurologico la guaritrice popolare surclassa la medicina accademica. Alcol canforato e tisane di valeriana guariranno le nevralgie più tenaci. Nel caso di choc emotivo e di panico inspiegabile (molto diffuso peraltro nella nostra epoca di stress), occorre fare bollire in un litro di vino i seguenti composti, purtroppo di non facile reperimento: "tamaride hysope marrue genet". Molte altre ancora sono le ricette, usate per secoli da ostetriche e levatrici per curare puerpere, guarire i contadini da otiti, congiuntiviti, vomito, coliche, diarrea. Al punto che il loro sapere terapeutico abbraccia ogni dimensione corporale e psichica, affermandosi come una medicina di base che compendia in sé molti rami specialistici. Dalla stomatologia alla oftalmologia, dalla neurologia alla ginecologia. Tali conoscenze, tramandate da misteriose filiere orali attraverso donne che non avevano mai visto l'università ed erano spesso analfabete, non potevano che suscitare due opposti sentimenti. Gratitudine e ammirazione da parte di pazienti 'miracolati'; invidia, sospetto e odio da parte di medici titolati e della classe sedicente colta. Molière sosteneva: «Ciò che mi piace nel medico è che si aggrappa ciecamente alle opinioni dei nostri avi, non volendo comprendere né ascoltare alcuna ragione in merito alle scoperte della circolazione del sangue o altre opinioni».
    Se la guaritrice può dunque essere popolare - come testimonia Bruegel nei suoi quadri intrisi di realismo onirico - di colpo può trasformarsi in strega, assassina diabolica, 'vituperata da tutti'. «Una curatrice che non ha guarito uno dei vostri parenti diventa una donna condannata».
    Tutte donne della medicina, che avevano fallito il loro scopo, che avevano deluso l'aspettativa popolare di un 'miracolo medico'?
    «ogni persona di sesso femminile, che esercita la medicina, deve essere considerata una strega e trattata alla pari di un'organizzatrice di sabba».
    Nei sette capitoli della seconda parte dell’opera, si insiste particolarmente sui «rimedi per coloro che sono stregati nella potenza generativa» o «per quegli uomini cui vengono portati via i membri virili con l'arte dei prodigi» o per «gli stregati per un amore o un odio disordinati».

    STORIA DI CORNELIA, pREDATRICE DI VIRILITA’
    «Le streghe possono operare tali prodigiose illusioni per cui sembri che il membro venga completamente staccato dal corpo. [...] E non ci si deve stupire che i diavoli possano fare simili cose [...]. Infine che cosa bisogna pensare di quelle streghe che raccolgono membri virili, talora anche in numero considerevole, anche venti o trenta, e li mettono nei nidi degli uccelli o in uno scrigno, in cui essi si muovono come membri vivi, mangiando avena o altre cose? [...] Un uomo ha riferito infatti che aveva perduto il suo membro e che per recuperare la propria integrità era andato da una strega. Questa ordinò all'infermo di arrampicarsi su un albero e gli consentì di prendere quello che voleva da un nido in cui si trovavano molti membri. E poiché lui aveva messo le mani su uno grande, la strega gli disse: 'Non prendere quello!' e aggiunse che apparteneva a uno del popolo.»
    «Immergevano nella notte i loro rami oscuri. Questo era forse il sortilegio. I rami giungevano dappertutto. Crescevano come edera, avvolgevano il corpo, penetravano in ogni orifizio. Nessuno poteva sfuggire a quell'abbraccio vegetale, lascivo. Ma io non so altro. Succedeva dopo che le ombre erano cadute come pesanti cortine sulle finestre della mia stanza e io venivo abbracciata da un sonno profondo. E' questa la verità. Questa la mia unica colpa. Il sonno e quel sogno.»
    Cornelia abbrancava le sbarre della cella murata. Uno spioncino che poteva appena mostrare il suo volto, corroso dall'ombra e dalla sofferenza, a qualche pietoso viandante che si chinava per osservare il breviario fissato, con una catenella, al suo spiraglio. «E' la verità», aveva gridato per anni. «L'unica verità. Io non sono una strega. Non ho impedito la potenza generativa di mio marito.»
    Cornelia sapeva ancora piangere nei primi anni della sua costrizione nella prigione sotterranea dove l'avevano sepolta viva, risparmiandole la morte e il rogo.
    Poi, col passare delle foglie e dei viandanti indifferenti, aveva cominciato a legarsi al silenzio, e a uno strano sorriso. I suoi capelli che erano stati dorati si trasformarono in fili bianchi, lunghi e radi.
    Non aveva uno specchio per osservarsi, se non quello interiore che le rimandava all'infinito l'immagine di una giovane serena, bella, leggiadra. Una giovane che era stata felice. Ma era ancora lei? Non importava: in quello specchio, un raggio di sole carezzevole fissava per qualche ora l'immagine che lei voleva vedere e nella quale si cullava, tra sogni e incubi.
    Il resto non era che letame e residui di cibo avariato, che fermentava insieme alle sue deiezioni in un angolo della cella.
    Ogni tanto una religiosa velata veniva a raccogliere, attraverso la finestrella, la sporcizia del suo corpo, che doveva ricordarle in ogni attimo di coscienza, la bruttura della sua anima, e sostituiva la paglia fradicia con fieno fresco. A volte vi aggiungeva anche fiori profumati!
    Cornelia, allora, elevava il pensiero a Dio, ringraziandolo per la sua misericordia.
    Il corpo ormai si era staccato dalla sua mente e si corrompeva come la paglia fradicia, senza che lei vi badasse.
    Dalla finestrella crociata entrava un refolo di vento, qualche goccia di pioggia, l'ombra di una nube, il rumore di un passo, il riso di un bambino, un piatto di minestra, una caraffa d'acqua, raramente un bicchiere di vino.
    Ma da quando la reclusa aveva cessato di reclamare e urlare la sua innocenza, i 'visitatori' si erano diradati. Ciò aveva rassicurato il clero, la famiglia e, soprattutto, suo marito.
    Cornelia aveva smesso di pensare a se stessa, e si concentrava su quel punto di luce attraverso il quale sarebbe passata, senza dubbio, un giorno non lontano. La cruna dell'ago terrestre.
    Per questo non si occupava più del suo corpo e anche il nutrimento le era indifferente. Spesso lasciava il cibo fuori della finestra, a disposizione di piccioni, topi e mendicanti. Solo l'acqua le era necessaria, per bere ogni tanto come un passero impaurito, o per lavarsi, col rispetto di sé ereditato dal passato, le parti intime del corpo. Per il resto era disincarnata.
    Le era capitato durante l'adolescenza di osservare spiragli di vita e di morte, simili al suo, disseminati in altre zone di Parigi.
    «Donne perdute. Streghe graziate. Monache penitenti. O sante» le aveva mormorato la governante, mentre la sua gonna di seta frusciava contro la grata maleodorante.
    Menilmontant, Rue des Capucines, Montmartre... In quel periodo, a Parigi, nel Quattrocento e Cinquecento, la segregazione muraria all'interno della città era assai diffusa.
    Il cimitero dei vivi, lo chiamavano.
    Ovunque andassero c'era una bocca di lupo dietro la quale una reclusa, murata viva, espiava e delirava.
    Cornelia non trovava il coraggio di avvicinarsi a quelle fosse disumane. Mentre la sua governante, Madame Ariette, sembrava eccitata dall'orribile visione.
    «Non escono mai» diceva, «e alcune vivono anche venti anni in quelle condizioni. Spesso sono dimenticate. Ne trovano solo più le ossa. E i topi, pensa. E per le funzioni corporali, come faranno? Ma alcune, dicono, sono riuscite ad avere amanti anche in quella tomba. Che nequizia! Si racconta anche che qualcuna delle dannate sia riuscita a fuggire, le sbarre segate dalla mano del diavolo.»
    Così era cresciuta Cornelia: tra pietà, orrore e superstizione. La sua governante non sembrava mai sazia di storie morbose. Un giorno la condusse fino al cimitero «per insegnarle l'umana pietà». Fra tombe maleodoranti e fiori marcescenti, cadaverici nella canicola estiva che il sole ribatteva col suo spietato mazzuolo, dopo un lungo giro fra i sentieri inghiaiati, Ariette le mostrò una 'tomba vivente'.
    «Ce ne sono molte altre in giro, basta cercarle» le sussurrò. «Ma questa è la più interessante. In un certo senso la segregata è mia amica» le disse con aria di complicità.
    Una tozza torretta sormontata da una croce d'ottone. Niente porta. Solo una finestrella sbarrata, attraverso la quale poteva passare un piatto o un braccio.
    «Claude» disse la governante, «sono io, vengo a trovarti con la mia bambina... Te ne avevo parlato, vero?»
    «Oh, sei tu Ariette, che Dio ti benedica.»
    Guardandosi intorno furtivamente, anche se non c'era nessuno nei dintorni, la governante porse, attraverso l'inferriata, alcune pesche e un trancio di torta a una mano adunca, dalle unghie ritorte, da rapace.
    «Pregherò per te» disse una voce catacombale. «Grazie, Claude. I tuoi pensieri sono più vicini a Dio. Tornerò la prossima settimana con del budino.»
    «Non vorrei peccare con la gola» disse la voce lontana. «Solo un assaggio.»
    «Amen» disse la voce prima di spegnersi. Cornelia sentì, in quel momento, una tempesta di pianto spezzata dagli scogli del pudore. La stessa tempesta che aveva provato dopo la prima audizione ecclesiastica.
    Accasata con un nobiluomo del suo rango da tre anni, ormai, entrambe le famiglie attendevano l'erede prescritto.
    A lei non importava molto se fosse arrivato in primavera o in inverno. Aveva solo 17 anni. Amava giocare con le ancelle, uscire con la governante ormai anziana, pur evitando i luoghi lugubri e macabri dell'infanzia.
    Le piaceva suonare il pianoforte e cantare, curare il giardino. Gli obblighi matrimoniali le sembravano un dovere, nel momento in cui aveva accettato il contratto sottoscritto dalla famiglia. Ma lo sposo era impaziente: voleva un erede, subito. Inoltre, doveva ben dimostrare la propria virilità al mondo. Ma la creatura non arrivava... Dopo essere stata costretta a numerose visite mediche, prive di ogni scientificità, Cornelia cominciò a essere osservata con uno sguardo sospettoso, da parte della sua famiglia, ma soprattutto dallo sposo e dai suoi genitori. Che un Armand non potesse avere progenie era privo di senso, dopo che il capostipite ne aveva sfornati sei nell'alcova legittima e altri qua e là nei pagliai.
    Se c'era una maledizione si trovava in quella donna. Che polsi sottili! Che mani arboree! Che sorriso ammaliante! E perché parlava con le piante? Perché accarezzava i fiori che sembravano fiorire di piacere sotto le sue dita?
    Amabilmente un parente stretto dello sposo, che vestiva il rispettato abito di Monsignore, e vegliava sul bene spirituale di un'abbazia e di numerose parrocchie con fittavoli e stalle redditizie, si assunse il delicato compito di interrogare la graziosa Cornelia.
    «I fiori, dunque» disse alla fine l'ecclesiastico. «Voi amate la purezza dei fiori, è così?»
    «Ma certo» asserì sorridendo Cornelia. «Sono incontaminati, non hanno peccato originale, la loro stessa riproduzione è misteriosa.»
    «Già», annuì pensieroso l'ecclesiastico.
    «Il loro incontro non è carnale: questo volete dire? E cosa pensate della potenza generativa degli uomini?»
    La giovane tacque. Non sapeva che il canonico conosceva alla perfezione il trattato del "Malleus" che aveva ancora consultato prima dell'udienza. «Non sapete dunque che è in potere di certe persone, donne particolari, impedire la potenza dell'uomo? Voi siete forse 'una donna-fiore', che rifiuta di essere inseminata dall'uomo?»
    Cornelia impallidì, udendo quelle parole villane.
    «Assolvo ai miei obblighi come ogni buona moglie» sussurrò.
    «Non basta, figliola mia, non basta. I casi sono due» farfugliò «o voi o lui. E in quanto donna, derivante da Eva, siete la principale sospettata.»
    Il canonico la consegnò nelle mani della gerarchia superiore. Il suo grado e la sua famiglia gli imponevano di portare a termine l'inchiesta.
    «Tra la vegetazione avete mai visto un serpente?» chiese alla fanciulla un inquisitore.
    «Non so, forse una biscia...»
    «E vi ha parlato?»
    «Ma no, signore, come potrebbe...»
    «Eppure abbiamo scoperto più di una volta che in casi come il vostro, l'impedimento virile era stato arrecato per mezzo di serpenti e di altre cose di questo genere.»
    Cornelia si mise a ridere, con la filigrana sottile della sua voce pura. Fu questo atteggiamento a perderla.
    Non c'erano prove sufficienti di stregoneria, ma il demonio ride quando la mano divina tenta di esorcizzarlo, questo è certo, decisero gli ecclesiastici.
    Non era il caso di trasformare una vicenda intima, tra famiglie importanti, in un caso di dominio pubblico. Ma occorreva giungere, comunque, a una soluzione esemplare.
    Se la bella Cornelia non era una strega si sarebbe ravveduta, espiando. E se lo era sarebbe stata messa in condizione di non esercitare più le sue arti malefiche.
    Fu deciso, senza opposizione, se non da parte dell'interessata, che la famiglia l'avrebbe murata in una cella, occupata poco prima da una religiosa in odore di santità.
    In questo modo il matrimonio sarebbe stato considerato 'non consumato' e il rampollo della dinastia Armand avrebbe potuto dare prova dei suoi lombi con un'altra sposa... Al contempo giustizia veniva compiuta, senza offendere la nuova concezione della morte e dell'aldilà, che privilegiava la purificazione alla vendetta terribile.
    Come scrisse Jules Michelet: «L'idea dei diavoli torturatori, che infliggono alle anime dei morti torture fisiche fu, per la Chiesa, una miniera d'oro. I vivi, affranti dalla pietà, dal dolore, si chiedevano: 'Si potrebbe, da un mondo all'altro, riscattarle queste povere anime, applicargli l'espiazione per ammenda e composizione che si pratica sulla terra?'. Da quel momento le colonne del cielo affondano nell'abisso».
    «Così sarò destinata a stare lontana dalle mie amate piante per molto tempo», sospirava all'inizio della prigionia la giovane reclusa, ai pietosi passanti che si fermavano ad ammirare la sua bellezza attraverso la finestrella. Poi il tempo divenne un muro nero, solcato dai graffi delle sue unghie e dalle lacrime di salnitro. Una tomba che si stringeva intorno a un corpo senza più forma, né peso. L'ultima persona a cui parlò Cornelia fu un uomo che si inginocchiò di fronte al suo avello, per sfogliare il breviario su cui aveva scritto un nome e alcuni pensieri volatili: «Le piante immergevano nella notte i loro rami oscuri», compitò l'uomo a fatica.
    «Sì è così» gli rispose la donna, uscendo dalla sua nicchia di oblio. «Ma le piante non possono essere diaboliche, sono così pure.»
    «E chi lo sa» rispose l'uomo. «Anche questo è un mistero. Purificate la vostra anima, e pregate per me.» La sua voce si allontanava. «Sono l'aiutante del boia, sapete.»
    "Guaritrice ambulante, erborista e strega".
    «Sul modo in cui le streghe sono solite affliggere agli uomini altre malattie particolari.
    Il diavolo può effettuare questa trasformazione, in quanto con il permesso di Dio introduce in un corpo malattie cagionatesi o qualche forma accidentale, come per esempio quando un viso appare lebbroso o qualcosa di simile. [...]
    Riguardo alla morte si sa che i diavoli possono privare qualcuno della vita. [...] Da ciò si può concludere che, in quel che il diavolo, da solo, è in grado di nuocere, ancor più lo può attraverso le streghe nei confronti di tutti gli uomini, nessuno escluso. In verità quando si chiede se lesioni di questo genere siano da imputarsi maggiormente ai diavoli o alle streghe, si risponde che come i diavoli operano con un'azione propria e immediata, per infliggere malattie, così queste lesioni sono attribuibili sopra tutto a loro, ma quando essi cercano di operare per mezzo delle streghe, per disprezzo e offesa del creatore, e nello stesso tempo per la perdizione dell'anima, consapevoli del fatto che Dio, in questo modo maggiormente irritato, lascerà loro maggiore potere di fare il male.»
    «Insomma: come ho già detto al signor usciere, che ha tutto scritto, mio marito era appena morto. Mio figlio unico mi aveva abbandonata, prendendo tutto ciò che avevo in casa. Anche i risparmi che tenevo nella vecchia pentola... Beh, in fondo era anche roba sua, non credo volesse derubarmi, no.... Ora sono vecchia ormai, vicina ai quarant'anni. Le mie forze sono estenuate. Zappo il campo, faccio servizi ai vicini, lavo la biancheria, raccolgo gli arbusti nel bosco. Ma non basta mai, signori. Riesco appena a mangiare e sembra che qualche mano diabolica mi voglia togliere anche il fiato. La malasorte, pensavo. Poi mi sono resa conto che si trattava di un maleficio, una fattura, probabilmente.»
    «Potete confermare qui in pubblico ciò che avete detto al cancelliere, signora Mesler?»
    «Indubbiamente: siete così gentile, monsignore, e la minestra di cavolo che mi hanno offerto aveva anche dei pezzi di grasso d'oca dentro, una delizia. La birra tiepida, poi...»
    «Non perdiamo tempo» si intromise il secondo cancelliere. «Abbiamo ancora molti testimoni da ascoltare. Persone che dovranno passare attraverso interrogatori, capite?»
    La donna abbassò lo sguardo.
    «Beh, mi trovavo al crocevia e stavo per recarmi dalla fattucchiera del villaggio, Anna Petre, per chiederle un consiglio. Le avrei donato anche un pollo, purché mi aiutasse nella mia situazione.»
    «Dunque questa Anna Petre nel vicinato ha fama di indovina, cioè di guaritrice, magari di strega.»
    «Ehm, diciamo che molti ricorrevano a lei, come prima al prete, scusate eccellenze, io sono nata nello scorso secolo e sono una povera contadina ignorante.»
    «O forse siete fattucchiera anche voi?» disse con voce temibile un teologo, assistente del Primo giudice.
    «No, io mai. Ho sempre lavorato duro, fin da bambina.» Mostrò le mani callose, deformate dal gelo. «E adesso sono vecchia. Vorrei solo giustizia e una minestra buona come quella che mi avete servito.»
    «Abbiamo capito» tagliò corto un domenicano. «Proceda nella sua testimonianza.»
    «Ecco, vossignoria: mentre mi domandavo come raggiungere la catapecchia della signora Petre, che conoscevo solo di nome, mi apparve di fronte un giovanotto, tutto azzimato e col pennacchio. Mi propose uno strano scambio: il mio pollo contro una manciata di monete d'oro. Le tirò fuori dalla tasca della giubba con noncuranza, come se fossero sassolini.»
    «E poi?» Il giudice ascoltava con curiosità crescente.
    «Beh, fu allora che notai le sue unghie lunghe e arcuate. Ma sa, sul momento non ci feci caso. Una piccola deformazione, una mania, può accadere anche ai ricchi. Così presi le monete e gli diedi il pollo.»
    «E dite, imputata» domandò un assistente, «non vi ha proposto un qualche rapporto... sessuale questa strana apparizione?»
    «A me? Quel giovanotto bello ed elegante: ma mi avete guardata?» rise sdentata.
    La corte giudicante, avvolta nei mantelli laici, simili a tonache religiose, annuì. Solo qualche assistente dichiarava la sua fede protestante, esibendo un berretto floscio alla Lutero.
    «Ma poi, giunta a casa, aprii la scarsella in cui avevo deposto quella insperata fortuna e...»
    «E?» si protesero i giudici.
    «Non c'era dentro più nulla. Solo aria.»
    «Aria?»
    «Esatto: uno sbuffo d'aria puzzolente come zolfo. E io che gli avevo dato il mio pollo migliore!»
    «Ne siete certa, imputata Mesler da Ulm?»
    «Certissima. Per questo pensai che era il diavolo. Solo il diavolo può compiere simili incantesimi, anche se ora, dicono, il diavolo è cambiato.»
    «Lasciate ai teologi il compito di discettare su questo argomento» disse bonario il primo giudice.
    ««Allora, io non ho fatto niente, eccellenze» sorrise sollevata la donna. «Io ho solo subito un danno, il pollo e l'illusione, e poi sono accorsa subito a denunciare quel diavolo e quindi...»
    «Ma non pensate» insinuò il togato, «che anche la suddetta Petre possa avere messo in atto la diabolica fattura?»
    «Questo non posso affermarlo, però circolano certe voci... A lei non è mai mancato il legno per il camino e anche il carbone, e dicono che organizzi dei festini nella radura dove si odono risate e arrivano persone su carrozze senza cavalli... Scorre a fiumi la birra e c'è vino del Reno a volontà... E poi cosciotti di pecora, galletti arrostiti, salsicce di maiale...»
    La donna sembrava perdersi in un suo sconfinato paradiso gastronomico.
    «Ma avete anche detto che la suddetta Petre può operare guarigioni e malie» la riscosse il giudice.
    «Oh sì, molti ne tornano soddisfatti e guariti, ma bisogna regalarle monete pesanti.»
    «E vi risulta, signora Mesler, che agisca da sola o in concorso con altre fattucchiere?»
    «In concorso, signore?»
    «Voglio dire insieme, con la complicità, di altre donne?»
    «Questo è certo. Quando si allevano rospi, si raccolgono bacche magiche e si tengono in casa animali con due teste... ci vuole pure un aiuto.»
    «Sapreste fare dei nomi, imputata?»
    «Ne ho sentito parlare. Dunque, amiche della Petre: la vecchia Cather, sua figlia Rose, e poi, sì, Susan la guercia.»
    «Potreste sottoscrivere a verbale la vostra testimonianza?»
    «Non so scrivere, ma faccio la croce.»
    «Va bene» disse il primo giudice con un sorriso, «potete ritirarvi, per ora. Accerteremo quanto detto da voi.»
    La povera donna uscì con aria turbata. Il presidente ordinò che fosse riunito il Consiglio, nel quale Fabrizius aveva il diritto di esprimere il suo punto di vista, ma non di votare.
    «Potrebbero essere tutte ubbie» esordì il francescano. «Ho già udito storie del genere infinite volte. Molto spesso sono frutto di suggestione, o di invidie.»
    «Però» obiettò un gesuita, «questa donna si è in pratica autoaccusata e sono certo che confermerebbe la sua testimonianza anche sotto i tormenti.»
    «Non sarà il caso» ribatté il primo giudice. «Le credo, per lo zelo con cui ha indicato le maligne e l'ingenuità con cui ha ammesso di avere incontrato il diavolo, e di avere accettato, per cupidigia, lo scambio fra il suo pollo e la borsa di monete illusone. Diverso il caso delle donne gravemente sospette: le fattucchiere.»
    «Sul modo in cui le streghe possono in generale infliggere ogni genere di malattia anche fra le più gravi».
    «Nel loro caso possiamo applicare due modi di emettere la sentenza.»
    «Quando si trova l'imputata di eresia fortemente sospetta [...] sussistono a suo carico indizi numerosi e gravi, provati e indicati dal Consiglio. In tal caso» continuò, «la persona, in quanto fortemente sospettata di eresia, assolutamente deve abiurare.»
    Fabrizius tirò un sospiro di sollievo. Ma il presidente, nel silenzio pesante della giuria, che lo avvolgeva come un tenebroso mantello continuò: «Esiste però anche la questione dodicesima, per cui se il comparso non avrà acconsentito ad abiurare sarà trascinato come vero eretico impenitente al braccio secolare».
    «Ciò significa il rogo?» domandò il frate. «In questa ipotesi sarà il braccio secolare a decidere, il tribunale civile emette la sua sentenza. Bruciarle come streghe certe e recidive, o incarcerarle a vita a pane e acqua. La Giuria si limita a elaborare su basi ortodosse il proprio verdetto.»
    «Ma nessuno ha dimostrato che le quattro donne siano colpevoli di stregoneria» ribatté Fabrizius.
    «Per natura sono streghe» rispose stancamente l'accusatore. «Sibilla nell'esaltazione. Maga per amore. Malefica con le sue fatture... Via, padre, non mi direte che la vostra esperienza inquisitoria non confermi questa affermazione.»
    «Vedete» continuò, «le sospettate dopo l'incarcerazione sono state spogliate secondo la questione quattordicesima esposta dal Libro: 'Questo per il motivo che qualche stregoneria potrebbe essere cucita nei loro vestiti'. Poi 'interrogate con moderate torture'. E poi c'è stata la lesione delle mani col ferro. Intanto viene tenuto presente che 'se confessa ci sarà la punizione dell'estremo supplizio'. Comunque 'le è stata promessa salva la vita', ma senza fare menzione al carcere a vita a pane e acqua. E inoltre sarà il tribunale civile a decidere in questo senso.»
    «Volete dire che hanno confessato?»
    «Tutte: Petre, la madre, la figlia e la guercia. Praticavano i sortilegi della medicina illegale. E hanno fatto altri nomi. Pare che ci siano molte donne e anche uomini che possono infliggere malattie nella regione.»
    «Ma anche guarire.»
    «E' lo stesso, padre, si tratta sempre di arte diabolica.»
    Gli altri giurati annuirono.
    «E la disgraziata accusatrice, Cathie Mesler?»
    Il giudice citò il libro nero:
    «Alcune donne, in verità, non subiscono vessazioni attraverso l'incubo, ma ritengono di subirle. Guglielmo riferisce, ancora: Molte apparizioni fantastiche si producono per il morbo della malinconia, soprattutto nelle donne. [...] La stessa natura muliebre è più facilmente impressionabile.»
    «Chiederemo dunque per lei un esorcismo, e delle regole di penitenza. Se poi incorrerà nella recidiva, allora il nostro atteggiamento sarà ben diverso.»
    «Ma perché non applicare lo stesso criterio medico e scientifico alle altre imputate, se il libro che considerate un'appendice delle sacre scritture lo afferma?»
    Il giudice rispose con atteggiamento insofferente: «Non vedete la differenza tra modus operandi diabolico, certificato dalla giuria e ammesso dalle stesse fattucchiere e streghe, e la spontanea cristiana confessione della sfortunata Cathie?».
    «Ma è stata lei ad accusare tutta questa gente probabilmente innocente. O colpevole solo di esercitare la medicina delle erbe e dei semplici, condita con qualche presunta parola magica...»
    «Avete esposto il vostro parere in piena coscienza, padre Fabrizius. Vi ringraziamo» ribatté gelido l'inquisitore.
    La seduta fu tolta.


    STREGHE CHE UCCIDONO I BAMBINI
    Il dolore, la sofferenza, l'ingiustizia sociale del mondo, ebbero nel calo della natalità e nell'elevatissima mortalità infantile, uno dei nodi più controversi della stregoneria e del permesso divino. Il "Malleus" fece leva su questi inspiegabili fenomeni di malvagità assoluta, per accusare le ostetriche di stregoneria, confortando e rafforzando i propri enunciati, congeniali all'architettura inquisitoria:
    «Sul modo in cui le streghe ostetriche arrecano i danni peggiori: o quando uccidono i bambini o quando, esecrandoli, li offrono ai diavoli.
    Non si devono passare sotto silenzio i danni arrecati dalle streghe ostetriche ai bambini. In primo luogo perché li uccidono, in secondo luogo perché li esecrano offrendoli ai diavoli. [...]

    A proposito di questa setta eretica delle streghe i danni maggiori per la fede erano inferti dalle ostetriche, come dimostrò con chiarezza ancora maggiore la confessione di quelle che furono bruciate. [...] Nella diocesi di Basilea e nella città di Thann era stata bruciata una strega dopo che aveva confessato di avere ucciso più di quattro bambini nello stesso modo: quando uscivano dall'utero conficcava loro uno spillone nel capo, dalla sommità fino al cervello. In tal modo fu sorpresa un'altra nella diocesi di Strasburgo, che confessò di averne uccisi tanti che aveva perduto il conto. Era stata chiamata da una città all'altra per assistere come ostetrica una donna partoriente. [...] Nel momento in cui usciva dalla porta della città, per caso, il braccio di un bambino appena nato le cadde a terra dal mantello che la ricopriva e in cui era stato avvolto il braccio. [...] Scoprirono che un bambino che era deceduto prima del battesimo mancava di un braccio. [...]
    Le streghe ostetriche in diversi modi uccidono nell'utero i concepiti, provocano l'aborto e, se non fanno questo, offrono ai diavoli i bambini appena nati.
    La verità esposta sopra viene provata al tempo stesso da quattro orribili atti compiuti sia sui bambini ancora nell'utero materno sia sui neonati. Siccome i diavoli devono eseguirli per mezzo delle donne e non degli uomini, quell'omicida si dà da fare per trovare alleati fra le donne più che fra gli uomini. E di tal fatta sono le opere. I canonisti, che trattano dell'impedimento ottenuto per stregoneria più di quanto non facciano i teologi, dicono che la stregoneria fa sì non solo che qualcuno, come è già stato detto, non riesca a compiere l'atto carnale, ma anche che la donna non concepisca o, qualora concepisca, in seguito abortisca. A questi si aggiungono un terzo e un quarto modo: qualora non riescano a provocare l'aborto, uccidono poi il bambino oppure lo offrono al diavolo. Intorno a questi primi due metodi non sussiste alcun dubbio perché l'uomo con mezzi naturali e senza l'aiuto dei diavoli, per esempio con erbe o altri impedimenti, può fare in modo che la donna non possa generare o concepire. Ma di questo si è già trattato. A proposito degli altri due metodi occorre esaminare se possano essere praticati anche dalle streghe e certo non sarà necessario dedurre argomentazioni qualora i giudizi e gli esperimenti di estrema evidenza rendano le cose più credibili».
    «Tenaglie, pinze, larghi vomeri ingombravano l'interno del forno e si arroventavano alla rinfusa sulla brace. Il sanguinoso lucore della fornace non faceva che illuminare in tutta la stanza un ammasso di orribili arnesi. Quel Tartaro si chiamava semplicemente la camera dell'interrogatorio.»

    GUSTAVE: MADRE INFELICE, OSTETRICA E STREGA
    «Certe streghe, che vanno contro l'inclinazione della natura umana, anzi contro le condizioni proprie di tutte le bestie, eccettuata solo la specie del lupo, sono solite divorare e mangiare i bambini. [...] L'inquisitore di Como ci ha raccontato [...] che un tale, mentre spiava un convegno notturno di donne, aveva visto e constatato che il bambino veniva ucciso e divorato, dopo che ne era stato bevuto il sangue. [...] Mandò al rogo quarantuno streghe, mentre altre si erano rifugiate presso l'arciduca di Austria, Sigismondo. A conferma di questo vi sono alcuni scritti di Giovanni Nider nel suo "Formicarium".
    Il ricordo del recente libro e di ciò che egli scrisse è ancora vivo, per cui non risulta incredibile come può sembrare. Sono proprio le streghe ostetriche a causare i danni peggiori, come hanno raccontato a noi e ad altri le streghe pentite, le quali dicevano che nessuno nuoce alla fede cattolica più delle ostetriche. Infatti quando non uccidono il bambino, lo portano fuori dalla camera come se dovessero fare qualcosa, ma sollevatolo in aria lo offrono ai diavoli. Nella seconda parte del settimo capitolo si parlerà dei metodi che osservano le streghe in queste cose vergognose. Ma prima di affrontare questo argomento occorre una premessa a proposito del permesso divino. Infatti fin dall'inizio è stato detto che tre cose concorrono necessariamente all'effetto stregonesco: il diavolo insieme con la strega e il permesso divino.»
    Gustave Mandrieu era stata accusata pubblicamente da più testimoni. L'inquisitore l'aveva imprigionata per pratiche diaboliche e omicidio. E aveva iniziato l'azione giudiziaria secondo i criteri dettagliati dal "Malleus".
    «La strega, che stava in mezzo fra le altre due, proferì queste parole: 'Ecco la peggiore delle donne, che non mi volle accettare come ostetrica, non se la passerà liscia. I danni maggiori per la fede erano inferti dalle ostetriche, come dimostrò con chiarezza ancora maggiore la confessione di quelle che furono bruciate.»
    Frate Fabrizius continuava a stringersi, ogni giorno di più, il cilicio che da 15 anni gli torturava i fianchi.
    'Viviamo, o Signore, in una rappresentazione illusoria, dove il potere ha ormai occupato ogni interstizio? E noi chi siamo: agenti del demonio, o impotenti farfalle inviate da Dio?'
    Il continente sotto i suoi piedi veniva squassato da un sisma tellurico senza precedenti, e gli oceani colmavano lo spazio vuoto fra mondi prima sconosciuti. Era questa l'apocalisse, o piuttosto l'alba annunciata di un mondo occulto?
    «Maestro, maestro, come vi sentite?»
    Il giovane allievo, un cappuccino che aveva assunto il nome di Otto, lo riscosse dalle sue dolorose riflessioni.
    «Una visione, figlio mio. Chi siede sul trono della fede: Cristo o Mammona?»
    «Maestro, se vi udissero...»
    «Accadrà, prima o poi... Ma sono pur sempre un inviato vaticano, in questo processo.»
    «E' ciò che vi turba?»
    «L'imputata si professa innocente, ma è accusata di almeno tre infanticidi compiuti con modalità differenti, benché di uguale natura eretica e satanica.»
    «Siete voi il difensore.»
    Fabrizius alzò le spalle: «Sì, nel gioco processuale. Ma il presidente è un giudice regio, attorniato da tre assistenti domenicani, più il segretario, e un arcidiacono. Senza contare il parere dei medici, che non vedono l'ora di appiccare il fuoco a qualche levatrice, per dimostrare che l'epidemia infantile non è colpa loro. O per negare che non hanno la più pallida idea delle sue cause naturali».
    «Non c'è Maligno, dunque, maestro Fabrizius?»
    L'allievo lo osservava dritto negli occhi, non osando respirare, in attesa della risposta. «Vedi, fratello Otto», rispose con gravità il francescano, «il nostro santo fratello Francesco ci ha insegnato che nella natura coesiste ogni risposta, e la natura, per qualche suo imperscrutabile motivo, ha ragione sui fatti di ogni genere. Anche la morte è nostra sorella. Se ci fosse il Maligno lo chiamerei 'fratello diavolo'», sorrise Fabrizius.
    «Parlate piano», sussurrò preoccupato Otto. «Non vorrete essere sospettato di eresia.»
    «La povertà è eresia, la verità è eresia, i nostri piedi scalzi sono eresia. Noi francescani siamo l'eresia inglobata nella Chiesa prima di tutte le eresie. Forse, per lo stesso disegno divino, veniamo tollerati, per impedire che crolli, miseramente, ogni potere spirituale della Chiesa fondata dal Cristo. Insieme ai suoi pilastri temporali scricchiolanti.»
    «Ma siete pur sempre un inquisitore.»
    «E' vero; per quanto sorreggere la fede con la persecuzione mi dispiaccia.»
    Concluse, sotto lo sguardo attonito del giovane allievo: «La religione, ogni credo sincero, nasce come rivoluzione dell'anima, non come repressione dei corpi donati da Dio. Il misticismo è rivoluzione», mormorò Fabrizius «fra estasi e dolore.»
    «E tuttavia, maestro, esiste anche l'omicidio del piccolo Petrus. In questo processo la madre nega ogni responsabilità, ma è stato orribile come fu massacrato.»
    Si stava avvicinando qualcuno. Fabrizius restò in silenzio, Otto tacque e nascose il volto nell'ampio cappuccio.
    «Dopo l'interrogatorio deciso dal primo giudice», disse un famiglio, «la prevenuta Gustave, accusata di stregoneria, torna in sala di consiglio. Se volete controinterrogarla...»
    «Sì», annuì Fabrizius.
    E aggiunse tra i denti: «L'hanno torturata, ma spero che non abbia ceduto ai loro ferri maledetti. I boia sono diavoli!».
    Otto trasalì.
    «Sì, mi chiamo Gustave Mandrieu, detta Gusta. Accusata di stregoneria dall'ostessa dell'Aquila Nera.»
    «Donna pia, l'ostessa», sottolineò il giudice che si stuzzicava l'unghia del pollice con un pennino d'oca. «Confessò le vostre fatture al nipote sacerdote, per liberarsi dalle pene che le avete procurato. E che hanno causato l'aborto di un suo figlio.»
    «Non vedo alcun rapporto», rispose a voce bassa l'accusata. «Sono fantasie, calunnie.»
    «Dite?» Il primo giudice lesse su un foglio:
    «Ero devotissima alla vergine, pensai dunque di liberarmi del malocchio gettatomi dalla ostetrica Gustave, digiunando a pane e acqua tutti i sabati. Poi un giorno mentre soddisfacevo un bisogno naturale, uscì dal mio corpo tutta la schifezza della sua fattura. Chiamai mio marito e mio figlio e mostrai loro quell'orrore: ho forse mangiato io spine, pezzi di ossa e di legno. Sono fantasticherie?»
    La levatrice scosse la testa: «Ho sentito di peggio, nella mia vita di guaritrice. Sapete, a volte la mente si infiamma...».
    «Illusione, dite? Eppure altre streghe della vostra setta di ostetriche hanno già confessato da tempo. Quaranta bambini uccisi, e una strega è stata bruciata dopo una confessione personale, nella diocesi di Basilea. Conficcava loro uno spillone nel capo quando uscivano dall'utero della madre. Non ne siete forse al corrente?»
    Il magistrato sfogliò il libro nero. «Uccidete in dato modo come lupi.»
    «L'inquisitore di Como, di cui si fa menzione, altrove racconta che 'mentre si svolgeva un convegno notturno di donne, aveva visto e constatato che il bambino veniva ucciso e divorato, dopo che ne era stato bevuto il sangue. Così mandò al rogo 41 streghe'. A conferma di questo ci sono alcuni scritti di Giovanni Nider nel suo "Formicarium".»
    Gustave si prese il volto minuto fra le mani, mentre piangeva. «Eccellenza, e voi giudici illustrissimi, perché accanirvi contro una povera donna come me? Io sono solo una madre sfortunata e una guaritrice che risana per amore del prossimo e per qualche moneta donata dai benefattori. Ma perché strega? Forse perché c'è stata a Strasburgo una febbre che ha ucciso donne e nascituri?»
    «Febbre, osate dire? Era una fattura vostra e delle vostre coimputate streghe, molte delle quali hanno confessato.»
    «Primo inquisitore», intervenne con calma straniata frate Fabrizius, «mio dovere è garantire i diritti dell'imputata fino alla sentenza.»
    «Lo sappiamo», ribatté con sufficienza l'accusatore.
    «Chiedo dunque che le sia concesso il diritto di parlare, dopo essere stata sottoposta alla continuazione dei tormenti.»
    «La malattia esiste, condanna puerpere e infanti», continuò la donna, come parlando a se stessa. «Basilea, Brema, Como, ovunque, sono diventati cimiteri di povere anime, non ancora battezzate.»
    Fabrizius si avvicinò alla donna e, osservandola da vicino, si accorse che era molto più giovane di quanto apparisse a prima vista. Non fosse stato per i capelli scomposti e appiccicati dalla sporcizia e dal sangue coagulato, o per alcune tumefazioni delle labbra, mostrava un viso infantile, degli occhi sereni, scuri e sinceri. Il corpo era slanciato, più alto della media, e armoniosamente plasmato dalla mano divina. Un disegno fragile e composito che pareva armonizzare i tre regni della natura. Scolpito nel marmo il busto, arboree le braccia, cesellati il naso e le orecchie, selvaggi gli occhi sotto le folte sopracciglia.
    Si guardarono negli occhi il maturo frate e la giovane donna accusata di colpe ignominiose. Gustave comprese che l'uomo non voleva accanirsi contro di lei.
    «Avete subito maltrattamenti?» le chiese senza perifrasi il religioso.
    «I tormenti, sapete...»
    Fabrizius rivolse il bel volto, solcato da profonde rughe di sofferenza, verso il giudice accusatore.
    «Questo lo so. Parlo di altre violenze, non ammesse dalla procedura.»
    «Non so, a un certo punto svenni... e allora non saprei dire... è come se il mio corpo fosse stato preso a mia insaputa e usato.»
    «Possessione?» inarcò le sopracciglia il francescano.
    «No, una violenza più terrena.»
    «Da parte di chi?»
    «C'erano molte persone nella camera di tortura: famigli, medici. Sono svenuta, credo.»
    «Volete dire che siete stata stuprata dagli stessi inquirenti?»
    «E' possibile, dopo che mi hanno rasato il pube per individuare i punti satanici, e hanno usato la tenaglia sul mio seno, sono stata sdraiata sul cavalletto, sapete...»
    Fabrizius conosceva a memoria quella procedura disgustosa. Il difensore non era ammesso, se non in casi eccezionali, nella camera di tortura. Solo inquisitori, famigli, un medico e il boia.
    Lui sapeva che molti fra gli inquisitori più sprezzanti si erano approfittati di presunte streghe avvenenti per soddisfare i loro appetiti e spesso le avevano mandate al rogo, dopo, per salvare la loro reputazione di uomini intemerati.
    «Potete provare la violenza, ricordare un volto?» chiese in un sospiro di cristiana disperazione.
    «No davvero, padre, sono venuta meno, forse per grazia del cielo.»
    «Testimoni della vostra versione?»
    «Guardateli!»
    'In effetti' pensò il frate, 'non erano che un blocco gelido di mantelli e cappucci, poggiati su scheletri senza pietà. La stessa paura che vogliono insinuare nel popolo, nei nemici, negli altri, li ha pietrificati.'
    L'inquisitore precedeva il proprio cadavere mummificandolo in vita, con la paura dell'aldilà, perciò condannava tutti i peccati presunti, sospetti negli altri e spesso verificati in se stesso.
    Fece un cenno a Otto, il suo assistente, che aveva nozioni dotte di medicina. Questi osservò l'imputata, sotto lo sguardo indifferente dei 'dottori del tempio', poi affermò: «Ha subito molte violenze, ma nessuna grave, a quanto vedo. Per quanto riguarda la parte interiore e le viscere non posso pronunciarmi, a meno che non ci sia emorragia o versamento di umori maligni».
    Fabrizius annuì, poi parlò lentamente, con una voce bassa che l'acustica dell'aula amplificava in un giudizio terribile: «Qual è la differenza tra noi e l'Islam, che combattiamo pervicacemente; tra la Chiesa e gli scismatici, quando la tortura e l'abuso sono le armi precipue della nostra cosiddetta fede? Si dice che infedeli e traditori di Cristo leghino a cadaveri umani e a carcasse di bestie gli imputati vivi. Per indurii alla pazzia o a una confessione estorta. Noi leghiamo a chi è salito sul rogo o sceso nell'inferno della menzogna, persone viventi che non possono difendersi.»
    «Non è pertinente con il processo la vostra digressione, legato francescano», rispose con calma affettata il presidente inquisitore.
    «Sì, sono stata io, Anna D'Assias, ad accusare la prevenuta Gustave.»
    L'ostessa, imponente nel vestito della festa e nella carne esuberante, indicava con l'indice grassoccio Gustave, relegata nel suo angolo mentale. Incredula e prigioniera.
    «Lei mi ha fatto abortire con le sue fatture e le sue erbe maledette.»
    «Signora,» la interruppe con gentilezza frate Fabrizius «siete certa di non avere richiesto voi stessa delle cure o degli interventi ostetrici che possono avere avuto un decorso sfavorevole? Non è un mistero che centinaia di donne, forse migliaia, sono morte nel dare alla luce dei neonati, che molto spesso i prematuri non sono sopravvissuti o addirittura sono stati espulsi in feto.»
    «Certo: ma di chi è colpa? Della luna, forse?» esclamò l'ostessa. «Sono loro, le streghe, amanti del diavolo, a compiere questi misfatti. Ho già deposto al giudice e potrei ripetere mille volte la mia convinzione. Quella donna mi ha fatto il malocchio perché non la volevo come ostetrica. Non l'ho pagata. E si è vendicata sulla vita del mio piccolo Hans.»
    «Come avete tale certezza?» replicò il difensore.
    «E' semplice, frate. Un giorno passò davanti a casa mia e pronunciò queste parole: 'Aci èro sira! Aci èro, aci sira!'».
    «Bastano dunque poche parole incomprensibili a causare la morte?»
    La donna guardò incredula l'emiciclo del tribunale e gli occhi azzurri, impenetrabili, del religioso che l'interrogava.
    «Le negai la ricompensa, pensava di sapere tutto lei; chiedeva e pretendeva: soldi e olio, e persino un gallo. Mi fece paura. Mi disse anche che la mia gravidanza era difficile, che forse avrei abortito naturalmente, e lei poteva solo tentare un rimedio estremo...»
    Il difensore guardò prima il giudice e la sua corte di incappucciati, poi rivolse il suo sguardo celeste all'imputata: «E' vero ciò che asserisce la vostra accusatrice?».
    «Sì, è vero.» Si alzò congiungendo le mani, e la sua postura ricordò a molti presenti un'immagine blasfema ma bellissima della Madonna piangente. «Ho fatto nascere molti bambini e bambine sani, ma a volte anche l'ostetrica più abile si trova di fronte a insormontabili difficoltà della natura.»
    «Dunque voi asserite che i molti casi di nascituri morti improvvisamente e di puerpere decedute senza ragioni apparenti siano di origine naturale. Non le streghe, non i demoni?»
    Gustave sorrise, o parve sorridere. «Noi ostetriche sappiamo da sempre che esistono molti corpuscoli, più piccoli di granelli di sabbia, invisibili a occhio nudo, che aggrediscono il corpo nelle sue funzioni vitali, essendo più mortali di una spada. Non riuscendo a individuare questo mondo invisibile si parla di arti magiche.»
    «Volete dire che non sono malefici inviati dal diavolo?», insorse l'inquisitore.
    «Se volete chiamarli con questo nome», alzò le spalle Gustave. «Noi sappiamo che è più importante per la puerpera l'igiene, un buon nutrimento e la costituzione sana, piuttosto che le preghiere.»
    «Bestemmia», stigmatizzò un domenicano. «Ecco la prova della strega.»
    «Lasciatela parlare, se in ogni caso avete intenzione di bruciarla», disse con voluto cinismo il frate difensore.
    «Ebbene, io potevo applicare solo alcuni cataplasmi in grado di allargare la natura della signora,» continuò Gustave, «evitarle il vomito e massaggiarle il ventre. Potevo anche, con il suo consenso, farla partorire in una vasca d'acqua, per favorire le doglie e le spinte. Ma l'ho messa in guardia prima, per onestà.»
    «Dunque voi avreste saputo fare tutte queste pratiche. Siete forse laureata in medicina a Parigi?», soffiò un domenicano con ironia.
    «Sono i laureati che non sanno farlo», rispose umilmente l'ostetrica. «Gli uomini non sanno fare nascere i bambini. Voi sapreste farlo?»
    «Sfacciata, strega provocatrice!» rispose l'aiutante inquisitore.
    Fabrizius fece un cenno che significava: 'Tutto è ancora da dimostrare'. Il difensore si rivolse quindi con estrema gentilezza all'imputata: «Potreste spiegare a questa corte la terapia che avreste usato?».
    «Certo: per i problemi uretrali che possono intervenire, con complicanze, in caso di grossezza da parto, io somministro 10 grammi di fiori di camomilla, 10 grammi di radici del geranio, 10 grammi di rosmarino in fiore, il tutto macerato.»
    «E funziona?» chiese il difensore.
    «Ma certamente, a volte bisogna cambiare la dose o aggiungere pino e ginepro, ma è una tisana efficace.»
    «Volete dire magica?», strillò il presidente accusatore.
    «Tutto è magico in natura, ma bisogna sapere scegliere ed elaborare ciò che è donato dall'Infinito.»
    Fabrizius assentì.
    Un frate domenicano, che verbalizzava con zelo ogni parola, alzò il volto dal tavolo e, a un cenno di assenso del presidente, disse con voce acuta: «E che mi dite, imputata, della pratica usata contro la febbre, che consiste nel cospargere di sale la radice di un arbusto, posare un pane su un ramo e ripercorrere di spalle il sentiero, mormorando questa formula: 'Espinas blanc, te porti sai e pa, e la fiebre per dema...'».
    «Eminenza,» rispose umilmente la donna, «queste sono pratiche volgari, che forse esistono, ma servono solo a colpire la fantasia popolare. Non hanno consistenza terapeutica. Non le ho mai usate.»
    «Ah sì?» incalzò il religioso. «E che mi dite di quest'altra formula magica?» si soffermò sull'aggettivo, arrotandolo fra le labbra aride.
    «Rifiutiamo ogni considerazione non pertinente», lo interruppe Fabrizius.
    «Bene», disse il domenicano accusatore. «Di fronte a questo tribunale amministrativo domando alla prevenuta cosa significano queste parole, trovate nella vostra casa: 'Radici di luna campana, erba di vermi, tanaride, polvere di ceroste'? Dove avete trovato la formula se non in un sabba?»
    «Si tratta di appunti, eccellenza. Gli ingredienti vanno reperiti in luoghi diversi, a volte non bastano i mesi di un anno per preparare la ricetta. Per questo alcuni medicamenti sono cari.» La donna sembrava dispiaciuta di non potere donare i suoi rimedi a tutti i malati.
    «Sostenete che sarebbe possibile curare tutto, dal gozzo al raffreddore, ai calli, con i vostri medicamenti?» chiese sprezzante il presidente.
    «Non tutto, eccellenza» rispose Gustave, «ma anche se i risultati variano da soggetto a soggetto, la mia farmacopea è molto ampia e conosco certi libri.»
    «Libri?»
    «Sì, libri, eccellenza. Testi provenienti dall'antichità e dal sapere degli arabi, ci insegnano molte cose.»
    «Arabi, avete inteso? Infedeli. Musulmani, che dovrebbero insegnare a noi cristiani in che modo guarire, quando solo la parola di Dio è salvifica!» strillò l'accusatore.
    Fulminò con lo sguardo frate Fabrizius. Il difensore osservò il soffitto di pietra della sala del giudizio. 'Mio Signore supremo' pensò 'anche tu sei stato giudicato dal pregiudizio e dall'ignoranza.'
    Poi sollevò la testa fiera sul lungo collo e rivolgendosi al tetro emiciclo disse: «Chiedo a nome della mia patrocinata che vengano formalizzate tutte le accuse. E che a esse si risponda con la ragione della fede ma anche con la fede della ragione».
    «Un rito abbreviato, chiedete? Se il consesso dei giudici è d'accordo, lo concedo» dichiarò il presidente.
    Laici ed ecclesiastici annuirono in silenzio.
    «Avere causata volontariamente la morte del nascituro dell'accusatrice, reato di aborto. Pratica demoniaca», lesse monocorde il presidente.
    «Avere procurato su di sé, per mezzo di pratiche illegali, la morte del proprio figlio. Aborto, con sacrificio al demonio.»
    «No, questo è infame. Nessuna madre uccide il proprio figlio», insorse la donna.
    «Siete pregata di non interrompere o farò liberare la sala d'udienza dalla vostra presenza perturbatrice», sibilò gelido il presidente.
    «Avere causato morte e aborti in numero indeterminato con la vostra pratica di levatrice e guaritrice votata al demonio.»
    La donna si afflosciò.
    Fabrizius sentì il desiderio istintivo, umano, di accarezzare Gustave sulla fronte sbiancata: donna forte e fragile come ogni mirabile e indifesa opera del creato.
    Poi riacquistò la freddezza del difensore: «Avete finito con le accuse?».
    «Noi sì, ora spetta all'accusatrice e alle testimoni completare il quadro processuale», disse con distacco il giudice.
    L'accusatrice principale si sollevò dallo scranno, appoggiandosi con le mani. Una mezza dozzina di donne, per lo più popolane, forse serve o cameriere dell'ostessa, si alzarono facendo la riverenza al presidente.
    «Parlate, dunque, invece di perdervi in salamelecchi», sbottò il frate difensore.
    «Presidente, qui, di fronte a tutti e con l'approvazione delle presenti testimoni...»
    «Presidente, avete verificato le loro testimonianze con qualche tratto di corda? Il manuale lo prevede», disse Fabrizius con scherno.
    «Solo se ci fossero contestazioni verificabili.» Le sue dita tamburellavano sulla nera copertina del "Malleus".
    «Posso continuare, eminenze?» si inserì l'accusatrice. «Ecco come avvenne. Il mio bambino era già vivo e parlante nel mio ventre, ma la presente Gustave disse che non sarebbe uscito.»
    «E perché mai?» chiese Fabrizius.
    «Senza alcun dubbio era stato colpito da una fattura diabolica.»
    «Dunque un feto può parlare e decidere di non nascere o scegliere di nascere morto...» Il frate scosse tristemente la testa. «Neanche nei papiri dei maghi egizi o dei negromanti siriaci si leggono tali sciocchezze!»
    «Eppure è accaduto, per intervento diabolico» si limitò a ribadire il presidente. «Dovrete pur ammetterlo, legato! Non siete anche voi un inquisitore?»
    «Qui in veste di difensore», precisò Fabrizius.
    Il presidente tornò a rivolgersi all'imputata: «Dunque dicevate del vostro bambino che parlava, si agitava e non voleva uscire».
    «E' così, eccellenza. Feci intervenire anche un religioso, poi mi giunse all'orecchio la fama di quella donna.»
    «Cosa faceste?»
    «Mandai a chiamare la presente Gustave. Ma lei mi raccontò un sacco di storie. Mi disse anche che il suo bambino era morto di febbre, e poi che erano tempi terribili. E per affrontare il mio caso in modo efficace bisognava spendere molti denari, nella ricerca degli ingredienti medicali. Insomma: fu un ricatto.»
    «Perché ora voi e le vostre cosiddette testimoni la accusate di stregoneria?» chiese semplicemente Fabrizius.
    «Fu lei a minacciarmi, dato che non volevo sborsare tutto quel denaro, per un esito incerto. E intanto il mio bambino cresceva nel ventre e la sua voce nella notte mi diceva: 'Mamma, non nascerò, non posso uscire. Qualcuno me lo impedisce'. Capite? E' stata una sofferenza inaudita.»
    «Qualcuno oltre voi ha sentito questa voce?» continuò il frate.
    «Non so; ma tutte le brave donne che sono venute qui a testimoniare conoscono il mio tormento. E' un miracolo se sono ancora viva e quella strega è l'unica responsabile del mio destino. Ne sono certa.»
    «Andate pure, ora» la licenziò il presidente.
    E rivolto all'imputata: «Basterebbe questa testimonianza per inchiodarvi». Accennò un mezzo sorriso. «Un bambino che parla nel ventre della madre, e morirà poco dopo. Lo avete sacrificato al diavolo?»
    Gustave scosse la testa, non aveva più alcuna fiducia nella parola e nel buonsenso dei giudici. Solo quel frate gli sembrava un essere raziocinante tra i fanatici incappucciati.
    «Ma se ciò non bastasse ancora per considerarvi eretica e strega, abbiamo anche un'altra testimonianza. Più importante. Che voi stessa avete reso, durante i tormenti. Dunque indubitabile.»
    «E se fosse il contrario?» ironizzò il difensore.
    Il presidente lo ignorò e fece un cenno al domenicano che verbalizzava.
    L'uomo sfogliò un libro spesso, ricoperto di cuoio.
    «Pagine dieci e undici», recitò. «La presente Gustave Mandrieu, non maritata, di professione venditrice ambulante, accusata di commercio diabolico, ha dichiarato quanto segue: 'Dopo la morte del mio amato bambino, che non riuscii a guarire, nonostante ogni sforzo, una notte mi apparvero, non so se in sogno o nella realtà del buio, un braccio e una mano. Erano membra infantili che bruciavano senza fuoco e si muovevano nell'aria, orbate del corpo. Venivano senza dubbio dall'altrove e io sentii che qualcuno mi inviava quel messaggio di luce, per sollevarmi dalla sofferenza, e dal complesso di colpa che mi rodeva. Cercai di stringere la manina luminosa, ma mi scottai e quella si sottrasse subito dopo'.»
    Lo zelante segretario continuò a leggere, senza emozione. «A domanda risponde: 'La rivedeste ancora?'. 'Sì, in circostanze diverse e anche in feste comandate. Vagava nella mia stanza, come una reliquia fiammeggiante, sospesa nel vuoto. Finché una notte gli dissi: ti prego, torna da chi ti ha inviato e riposa in pace'.»
    «E cosa successe dopo?» domandò il frate.
    «Udii una risata terribile, sentii puzza di fumo, intravidi occhi di gatto e scorsi frattaglie che esplodevano nell'aria. L'apparizione miracolosa scomparve per sempre.»
    Frate Fabrizius guardò la donna.
    «Come spiegate questo fenomeno?»
    «Non so. La creatura sussurrò che apparteneva ai tre regni della natura. Forse il male esiste davvero. O io ebbi un'allucinazione generata dal dolore.»
    Il presidente ignorò le ultime parole.
    La donna aveva firmato la propria condanna a morte. Fabrizius lo vide nello sguardo di trionfo del giudice e dei domenicani, prima di udire la loro sentenza.
    Il presidente, secondo il dettato giuridico del "Malleus", decise di applicare la sentenza «in sé definitiva», alla prevenuta Gustave Mandrieu, «per sortilegio, aborto, esecrazione e sacrificio diabolico d'infanti».
    Fabrizius e Otto si trovavano, in una grigia serata, attorno a un disadorno tavolo di osteria.
    Mancavano due giorni all'esecuzione.
    «L'hanno torturata ancora?» domandò con voce rotta Fabrizius.
    «Non sembra, almeno da quanto mi ha raccontato il cappuccino che è il suo padre spirituale. Ma quando verrà il momento, sul rogo», sembrò inghiottire sale e spine «non sarà un passaggio facile... attraverso le fiamme.»
    «Che Dio l'aiuti. Dio aiuta tutti i suoi fedeli», affermò Fabrizius, cercando di scacciare la visione insistente delle piaghe e della corona di spine del Cristo.
    «Anche la mano umana può diventare a volte un lenimento del Supremo» affermò Otto.
    «E come?»
    «Facendo cessare la sofferenza del corpo prima che vengano incendiate le fascine del rogo. L'anima di quella donna è pura come una colomba. Lui l'accoglierà fra le sue braccia. Gli altri sono solo corvi.»
    Fabrizius annuì.
    «E come accadrà?»
    Otto parlò a voce bassa, come un congiurato. «Una pozione che spegne la coscienza senza dolore, rapidamente. Il mio fratello cappuccino si incaricherà di somministrarla alla condannata poco prima dell'esecuzione.»
    «Ma è omicidio anche questo» tentennò Fabrizius.
    «Omicidio? Donare una dolce morte all'innocente è omicidio, maestro?»
    «Per la legge sì, anche se un attimo dopo sarà comunque uccisa. Ma per me no. Non più.»
    Otto chinò il capo, la cui folta capigliatura era mortificata da un'ampia tonsura.
    «Ego te absolvo», disse Fabrizius.


    PARTE III
    La presunta stirpe generata dal rapporto fra incubi, succubi, demoni e streghe era considerata fondamentale per la diffusione del contagio diabolico. Le domande più importanti riguardano la possibilità e le modalità reali della procreazione diabolica, nonché le caratteristiche della progenie che ne deriva. Nulla viene escluso: dalla geminazione agli ibridi infernali, dal connubio succube a una macchinosa tecnica di inseminazione artificiale.
    «Quanto agli atti carnali e circa il fatto che i diavoli li compiano come incubi con le streghe nei corpi da loro assunti, non sussiste nessuna difficoltà in base a quanto si è detto fin qui. Può forse restare un dubbio: le streghe dei nostri giorni praticano queste sporcizie? Le streghe sono state originate da queste sporcizie.
    Per quanto riguarda le antiche streghe vissute circa millequattrocento anni prima dell'incarnazione del Signore [...] non si sa, perché la storia non ha mai parlato di quello che ci ha insegnato l'esperienza. [...] [Tuttavia] nessuno può dubitare che gli stregoni siano sempre esistiti e che le loro opere abiette abbiano procurato numerosi danni agli uomini, agli animali e ai frutti della terra e così pure non si può dubitare che siano sempre esistiti i diavoli incubi e succubi. Le tradizioni del canone e dei santi Dottori hanno tramandato da molti secoli molte cose su questo argomento. Ma nel passato i diavoli incubi molestavano le povere donne contro la loro volontà.
    Quanto all'opinione che afferma che le streghe del giorno d'oggi si siano infettate di queste sporcizie diaboliche, essa è ben salda non tanto per la nostra convinzione, quanto in base alla testimonianza vissuta delle streghe; [...] sottoponendosi volontariamente a questa miserevole schiavitù [...] sempre con un rinnegamento totale o parziale della fede. [...] Il nostro collega, l'inquisitore di Como, nella contea di Burbia nello spazio di un anno, il 1485, fece bruciare quarantuno streghe, che, come si diceva, affermavano tutte pubblicamente di essersi date a queste sporcizie diaboliche. Tutte queste cose, dunque, risultano dalla nostra esperienza di quanto si è visto o scritto, o dalle relazioni di testimoni degni di fede. [...] Alla questione se coloro che sono stati generati in seguito a questo genere di pratiche diaboliche siano destinati ad avere facoltà superiori rispetto ad altri uomini, [si] risponde che è vero, non solo in base al testo della "Scrittura", 'questi sono i potenti fin dai tempi antichi', ma anche perché i diavoli possono sapere la capacità del seme separato da qualcuno. [...]
    I diavoli si dedicano a questa attività ai fini non del godimento ma della corruzione. Le cose si svolgeranno in questo ordine: un diavolo succubo prende il seme di un uomo scellerato, e se si tratta di un diavolo assegnato in particolare a quell'uomo e non vuole rendersi incubo di una strega, allora da questo seme a un altro diavolo assegnato a una donna o a una strega, e questi, sotto una costellazione che gli è favorevole per generare un uomo o una donna vigorosi, per perpetrare stregonerie, si farà succubo della strega. [...]
    Alla domanda di chi sia figlio chi nasce per opera di questi diavoli, risulta evidente che non è figlio del diavolo ma dell'uomo da cui proviene il seme.
    [...] Se si deduce che il diavolo può prendere e infondere il seme invisibilmente, diciamo che è vero, ma che esso lo fa, di preferenza, visibilmente come succubo e incubo, per macchiare con tale sporcizia il corpo e l'anima dell'uno e dell'altro uomo, ovvero tanto della femmina quanto del maschio nel corpo, come è stato detto.
    Potrebbe infine succedere che un altro diavolo ricevesse la semenza al posto del diavolo succubo, il quale a sua volta si rendesse incubo al posto dell'altro e questo per tre giorni: un diavolo, attaccato a una donna, riceve il seme da un altro diavolo, attaccato a un uomo, e così ciascuno può esercitare la stregoneria affidatagli dal principe dei diavoli, dato che anche dal Maligno è stato affidato a ciascuno il proprio angelo, oppure ciò accade per la sozzura dell'atto. [...] Oppure infine il diavolo, prendendo invisibilmente il posto del seme dell'uomo, introduce, frapponendosi alla donna, il suo seme, cioè quello ricevuto invisibilmente come incubo. Bisogna dire che affermare che talvolta gli uomini sono procreati da questi diavoli è un'affermazione così cattolica che l'affermazione opposta è contraria non solo alle parole dei santi ma anche alla tradizione della "Sacra Scrittura". [...] I diavoli sanno quale sia la migliore complessione da conferire al neonato perché gli effetti siano proporzionati a lui. Si conclude allora dalla concomitanza di questi elementi che coloro che sono generati in questo modo hanno una corporatura robusta e grande. [...]
    Se ci si chiede se le streghe siano state originate da tali sporcizie diciamo che è vero, hanno avuto senz'altro origine da questa pestifera mutua società. [...]
    Valga da sommaria conclusione che, nonostante quanto dicono certuni, che i diavoli non possano in alcun modo generare con i corpi da loro assunti, perché per figli di Dio si intendono i figli di Seth, e non gli angeli incubi, e per figlie degli uomini le discendenti della stirpe di Caino, tuttavia, come risulta, viene addotto il contrario da parte di molti e sembra che questo non possa essere del tutto falso, secondo il Filosofo [Aristotele] nel "De somno et vigilia". Infatti ai nostri tempi si trovano attestati fatti e detti di streghe che fanno veramente e realmente tali cose.”
    Ci sono sette metodi per colpire con stregonerie di vario tipo, l'atto venereo e il feto concepito nell'utero; il primo si compie spingendo l'animo degli uomini a un amore disordinato, il secondo bloccando la loro forza generativa, il terzo portando via il membro che serve per tale atto, il quarto trasformando gli uomini in forme bestiali, il quinto compromettendo la forza generativa nelle donne, il sesto procurando l'aborto, il settimo offrendo i bambini ai diavoli.»
    Il sesso risulta una sorta di interfaccia fra mondo conosciuto e sconosciuto, vita e morte. E' una porta misteriosa, un mezzo di comunicazioni tra potenze del bene e del male. Attraverso l'unione sessuale si stabilisce il rapporto con la vita, la riproduzione, il miracolo della continuità. O, all'inverso, si prospetta lo schermo nero della perdizione. Perciò il seme gelido del diavolo, i rapporti perversi, contro natura o non finalizzati alla riproduzione ma alla lussuria, sono considerati il passante per l'inferno.
    Il corpo e i suoi organi genitali diventano un tormentato edificio di peccato e virtù, in cui il membro maschile e l'organo femminile assumono una funzione metafisica e creazionista. Oggetti dell'interdizione e condanna di fede al contempo, simboli paganeggianti dell'utero e del fallo cosmico che hanno generato l'universo.


    STORIA DI BABETTE, PERDUTAMENTE INNAMORATA DEL DIAVOLO
    «Procedete.»
    «L'assistente girò l'impugnatura del martinetto, lo stivaletto si strinse e la povera disgraziata lanciò uno di quegli orribili gridi che non hanno ortografia in alcuna lingua umana.»
    «E' accennato prima, riguardo ai peccati dei padri, che Dio punisce nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, e ciò come s'è detto si capisce dagli imitatori dei delitti paterni. Ma questo criterio si conclude con la punizione dei figli al posto dei padri, quando non si imitano i delitti paterni mettendoli in opera in cattive azioni, ma solo nell'abito. Come accadde infatti al figlio nato a Davide, per adulterio, che subito morì. E si ordinò che gli animali degli Amaleciti fossero uccisi, sebbene la ragione di ciò debba considerarsi mistica. [...] Da tutte queste cose non è fuor di luogo dire che i bambini di questa natura, sempre, alla fine della vita, inclinano a perpetrare stregonerie. Così infatti Dio santifica le offerte fatte a Lui, come dimostrano le imprese dei santi, qualora i genitori consacrassero la prole da loro procreata a Dio; così anche il diavolo non cessa di corrompere ciò che gli è offerto, come si può ricavare da numerosi fatti nel "Nuovo" e nel "Vecchio Testamento". Così dicono parecchi patriarchi e profeti come Isacco, Samuele e Sansone. Così anche Alessio, Nicola e innumerevoli altri che giunsero con moltissime prove d'amore alla santità della vita. [...]
    L'esperienza infine dimostra che sempre le figlie delle streghe hanno fama con simili argomenti di essere le imitatrici dei delitti materni e che quasi tutta la progenie è infetta. La ragione di ciò e di tutte le cose precedenti è data dal fatto che hanno sempre cura di lasciare un superstite e cercano di farlo crescere, stretto il patto con il diavolo, con enormi sforzi di perfidia. [...] La ragione naturale è che la donna è più carnale dell'uomo, come risulta in molte sporcizie carnali. Si può notare che c'è come un difetto nella formazione della prima donna, cioè una costola del petto ritorta, come se fosse contraria all'uomo.»
    «Visione diabolica!» esclamò il Primo giudice. «Babette Guilleme ha sostenuto nei tormenti che il mondo è popolato da piccoli esseri luciferini. Polvere trasparente e mobile, che si agglutina e si separa come un universo di anime, oggetto di diaboliche attenzioni».
    L'inquisitore stava seduto al centro del tribunale, su uno scranno rialzato che doveva ricordare il pulpito. Ma un pulpito costruito non sulla parola divina, bensì sul potere terreno di armigeri, famigli e assistenti che lo circondavano, poggiati su scomodi seggi senza schienale e muniti di leggìo.
    Il giudice dalla sua altezza irraggiungibile leggeva sortilegi, dettagliava peccati ed eccessi che non esistevano nel linguaggio umano, neppure in quello più abietto delle taverne e dei postriboli. Si concretava in quella sordida aula un'accusa di turpitudini che si abbattevano sull'imputata con la violenza del castigo preventivo, con la ripugnanza di esseri volanti, neri e puzzolenti.
    «La prevenuta si offriva, in cambio di moneta, a più uomini contemporaneamente, concedendo ai loro istinti bestiali ogni orifizio del suo corpo... La sua lussuria era mercato di pratiche orgiastiche che officiava come una messalina diabolica. Ridendo applicava la sua rosea bocca al membro virile. Offriva il suo deretano alle carezze più lascive... Masturbava contemporaneamente due amanti, mentre un terzo la possedeva seduto sulle sue ginocchia... Si concedeva alla sodomia mentre contemporaneamente un altro amante la penetrava, Più che un'Afrodite pagana, iniziata alle arti depravate dell'amore, pareva un'invasata mai sazia di piaceri proibiti...»
    Ed ecco la grande peccatrice, la Diana scandalosa del patto sessuale diabolico.
    La giovane bionda, dallo sguardo assente, che sedeva in fondo alla sala, incatenata, era la portatrice del "peccus" che, come sostenevano gli antichi, è un difetto del piede - sintomo di occulte verità. Specie ora che il boia l'aveva storpiata con il martinetto e i ceppi, la sua graziosa caviglia era un evidente atto di accusa. Ma dopo quanto aveva raccontato e confessato, non era quello il segno più rilevante della colpa. Non c'erano dubbi: in quell'abito estraniato e ammaliante dimorava una strega, amante del diavolo, che aveva stregato e insozzato sessualmente molti giovani e amanti occasionali, in virtù del patto carnale stretto con Satana. Donna pubblica, prostituta, meretrice, ma soprattutto ispiratrice di malefici che, con l'aiuto del diavolo, corrodevano le menti e i corpi delle sue vittime. Forse mirava a privarli della virilità, della potenza seminale, per gettare sul mondo un ennesimo maleficio venereo. Non era forse lei stessa sterile, per potersi abbandonare alla più rivoltante libidine, senza rimanere gravida?
    Il giudice, leggendo il "Malleus" aveva asserito, in forma di inconfutabile conclusione: «Le mani [della donna] sono vincoli che imprigionano perché, dove mettono mano per stregare una creatura, con la complicità del diavolo ottengono quello che vogliono. In conclusione tutte queste cose provengono dalla concupiscenza carnale che in loro è insaziabile. Secondo i "Proverbi", infatti [...] tra le cose insaziabili c'è la bocca della vulva, per cui esse si agitano con i diavoli per soddisfare la loro libidine.»
    Frate Fabrizius la osservava e intanto si domandava in cosa consistesse veramente il "peccamen" per la Chiesa, che aveva costruito l'edificio del peccato sugli impulsi normali del cuore e del corpo, fondamentali per ogni creatura. L'amore senza il quale non ci sarebbe creatura vivente, era stato bandito per sempre dalle contrade terrestri, disertate dalla gioia e dal piacere.
    «Voi dunque ammettete di avere incontrato "de visu", cioè di persona, il diavolo, sotto le sembianze di un giovane bellissimo», continuò il giudice.
    La 'strega' annuì per l'ennesima volta.
    «E avete ammesso - dopo avere tenuto con lui per mesi uno scandaloso commercio sessuale - che 'una volta scomparso, siete diventata melanconica, apatica. Lo avreste seguito ovunque, e non potevate più vivere senza di lui'. Sono queste le vostre parole?»
    «E' così. Senza Barthelemy - è il suo nome - posso anche morire subito; lui è il diavolo, mi farà rivivere altrove, fra le sue braccia sante, o le sue ali angeliche.»
    «Sante, angeliche?» insorse un aiuto-inquisitore. «Questa è la bestemmia che la segna più dei numerosi punti diabolici trovati sulle sue carni sacrileghe.» Sottolineò con compiacimento: «Fra le cosce e sulla vulva, intorno al capezzolo sinistro e sul gluteo, accanto al...»
    L'inquisitore lo interruppe con un cenno, e ridiede la parola all'accusata.
    «Sì, lui mi ha detto: 'Sono un diavolo', e intanto rideva con le sue labbra rosse e i denti perfetti. Ma io ho pensato che forse i santi e gli angeli e i demoni sono di uguale natura. Se possono tutti donare l'estasi nell'amplesso...»
    'Sono venuto a Poitiers', rifletteva fra sé e sé Fabrizius, 'su ordine del generale dell'ordine. Come uditore e consigliere anziano. Non ho potere né di difesa, né di procedura. Posso solo interrogare e fare richiami all'ortodossia. Ma cosa c'è di più ortodosso del "Malleus", che questo giudice invoca a ogni passo come un complemento delle Sacre Scritture? E questa giovane? Avrà forse peccato con la carne, ma non si abbandonano anche le foglie alla carezza dell'acqua, e i volatili al soffio scherzoso di sorella aria? Come avevo già avuto occasione di sperimentare, credenze e credulità sono sorelle partorite da un'unica madre. La paura? L'ignoranza? La miseria? O l'illusione di un mondo migliore? Viviamo in una nuova epoca con due soli, due cieli, due mondi. E due religioni. Non è questa la fenditura del diavolo? Si dice, infatti, che per produrre l'eresia più terribile e diffusa sulla terra (il protestantesimo con le sue molteplici branche), il diavolo ingravidò una certa Margherite, da cui nacque né più né meno Martin Lutero.'
    Il frate si riscosse. La frequentazione con la falce e la morte, i carboni ardenti e i riti disumani della purificazione, gli erano sempre più invisi e insopportabili.
    «Dunque Babette Guilleme, qui accusata, siete convinta di essere stata amante del diavolo?»
    «Tutto, confermo tutto. Ero sua corpo e anima.»
    «E, nonostante la punizione già inflittavi con i tormenti, lo rifareste ancora?»
    «Senza dubbio. L'amore è più forte del dolore... Venere Arianna, Diana, Leda... si innamorarono di eroi straordinari. Anch'io ho avuto questo privilegio, e ho volato.»
    Sembrava a tratti che la giovane recitasse un ruolo autodistruttivo, ascoltato mille volte. Eppure, i giudici erano affascinati dal "cupio dissolvi" che assomigliava a un delirio mistico, e dalla 'volontà di martirio' prorompente da un corpo tanto giovane e bello.
    «Dunque siete rea confessa», sottolineò il giudice. «Dopo questa vostra confessione spontanea, che tuttavia si verificherà con mezzi opportuni, passiamo quindi, a esaminare le testimonianze che riguardano la vostra nascita e la prima giovinezza.»
    'Una strega' che affermava semplicemente il suo amore per il diavolo, con sincerità disarmante, considerando il suo amante un santo o un angelo, Fabrizius non l'aveva mai conosciuta. La sua voce era sottile, serena. Tutto in lei pareva disincarnato, come se non le importasse più nulla del dono della vita. Senza di lui.
    'Ci vuole un grande coraggio', pensò, 'e una minima presunzione, per parlare, scrivere, pensare. Vivere anche. Per questo, forse, i presuntuosi sembrano incarnare la piccola, tranquillizzante verità. E gli altri il peccato supremo.'
    La lettura della vita di Babette fatta dal giudice lo distolse da una folla di pensieri laterali. Babette era nata a mezzanotte del 13 dicembre. Congiuntura fatidica. Faceva molto freddo. Il fiumiciattolo Clain spaccava sponde e legni come fossero carni lebbrose. Sua madre Radegonda l'aveva partorita senza doglie, senza un grido. Tra i sortilegi e i marchi infernali, imputati alla piccola Babette, si ricordava un rospo enorme che, saltellando intorno alla sua culla, fece un balzo più lungo del previsto e finì nel fuoco del camino. Ma non fu bruciato.
    «Affatto» commentò con la fronte corrugata il Primo inquisitore. «Anzi, dopo essere uscito dalle fiamme, il ripugnante batrace orinò sul pavimento e sputò dalla gola questa sentenza: 'Prendo la piccola e ringrazio. Ne farò la mia regina e il mio profitto'.»
    'Avevo già letto nelle favole di Esopo che gli animali parlano, ma forse a quei pagani, più saggi di noi, non era mai venuto in mente che fosse il diavolo in persona a ispirarli. Più facile pensare a un ventriloquo! Che fratello sole non sia obnubilato ancora a lungo, santo Francesco!', pensò Fabrizius.
    «Pertanto si può considerare la presente Babette come creatura procreata da rapporti diabolici», sentenziò il giudice. Una speciale recidiva del peccato originale. E, rivolto all'imputata: «Non ricordate fenomeni sovrannaturali intorno a voi, nella vostra stanza, nella culla, a parte l'episodio del rospo infernale?».
    «Non mi sembra, solo occhi che mi osservavano, come tanti gatti attenti e fedeli.»
    Il giudice osservò Fabrizius, più vecchio di lui, che non pronunciò motto. Poi si schiarì la voce.
    «Osserviamo sui documenti che, raggiunti i quindici anni, secondo testimonianze raccolte nel vicinato, voi, Babette, avevate già uno stuolo di corteggiatori, e conoscevate, ehm, la faccia nascosta della luna femminile. Con il tempo avete donato le vostre grazie a tutti e a ciascuno. Venivano, è scritto, anche dai paesi vicini, per vedervi e giacere con voi.»
    «Furono mia madre e il suo uomo a costringermi. 'Vedi' mi dissero, 'viviamo in povertà, ma il buon Dio ti ha regalato questa bellezza e un giorno un magnifico cavaliere verrà e si innamorerà di te. Basta saperlo attendere e il tuo destino cambierà totalmente. Nel frattempo che male possono farti questi giovani gagliardi, innamorati di te, che vogliono godere di te, come l'ape di un nettare zuccheroso?' Fu così» continuò senza imbarazzo la giovane, «che appresi molte arti amorose: baci, carezze, amplessi diversi. Ma era solo un gioco. Anche se mi chiamavano 'cortigiana, meretrice, puttana da pagliaio'. Non sentivo amore; il piacere del sangue risvegliato, sì, la gioia di vedere quel denaro tintinnante, che mi davano commercianti e signorotti, sì. Ma l'amore non era ancora entrato nel mio ventre.»
    «Ma come, non sentivate vergogna? Eravate ancora una ragazza e già vi comportavate da consumata prostituta!» esclamò l'inquisitore.
    «Mantenevo la mia famiglia e donavo alla Chiesa, e facevo elemosina ai poveri. Per me non c'era mai nulla, se non l'essenziale e gli abiti che mi aveva donato qualche possidente, per rendermi più desiderabile al suo sguardo...»
    «E non pensaste mai di avere commesso peccato mortale, con la carne, con il pensiero.»
    Quasi sorrise, nella piega amara delle sue labbra infantili e antiche: «Venivano anche ecclesiastici, sapete, nel mio letto, e quante croci ho visto volare insieme alle mie gonne».
    «Non si possono ascoltare simili insulti alla santità», gridò un giovane uditore gesuita.
    'Bisognerebbe ascoltarle ogni giorno, invece', pensava Fabrizius, 'se si vuole comprendere dov'è il male.'
    «Siete stata denunciata per avere stregato un giovane; asservito amanti; trasformato un altro spasimante in asino e scandalizzato i pii cristiani davanti alla chiesa del villaggio con il vostro comportamento scostumato. Avete persino sollevato le vesti fino alle pudenda.»
    La giovane si limitò ad alzare le spalle. «Ero vergine nello spirito, queste accuse bigotte non mi toccano.»
    «E perché mai partiste dal vostro borgo per andare a servire in una masseria, come donna di cucina e di stalla?»
    «Volevo lasciarmi alle spalle tutte le chiacchiere. Anche se il mio padrone si dimostrò una specie di porco.» Rise: «Ma io ero vergine. E non mi concessi mai. Chiedetelo a lui».
    Secondo gli atti, quella giovane donna, che sembrava indemoniata, si era votata alla castità, per anni. Contro il suo proprio interesse materiale e le sue 'perverse inclinazioni', come sosteneva l'accusa. 'Ma perché', si chiedeva Fabrizius. 'Forse non voleva ricadere nella nassa diabolica che le aveva teso la famiglia, questa sì colpevole del suo sfruttamento. O forse era davvero un animo vergine. Che attendeva il segno benedetto.'
    «Forse però», aggiunse la ragazza uscendo dal suo trasognato silenzio «forse la mia anima è davvero diabolica e io aspettavo il mio sposo annunciato, bello e desiderabile come un arcangelo. E infatti, al mio ritorno, lo incontrai. Era lui il principe tanto atteso.»
    Fabrizius avrebbe voluto fare di più per quell'anima e la sua giovane vita, ma nel processo aveva la prerogativa di porre domande, non di difendere. Il francescano cercava inutilmente segni di pietà sul volto dei giurati che formavano il Consiglio o sulle facce brutali del pubblico. E neppure compariva una vaga ombra di pentimento sotto le lunghe ciglia di Babette. Alla fine intervenne.
    «Babette, dite, non foste oggetto di odio da parte di altre donne, per la vostra avvenenza? Non è forse vero che a volte, la bellezza del corpo, specie in una donna, viene considerata il marchio del diavolo?»
    La giovane rispose: «Non so, monsignori. Se ho avuto un comportamento lascivo e ho tentato di sedurre dei giovani di bell'aspetto, non è per la lussuria dei sensi. Mi hanno accusato di avere gettato il malocchio su tutti i giovani che incontravo. Di concedermi a loro, di intrecciare le mie gambe alle loro, la mia lingua alla loro, di averli stregati attraverso il mio sesso insaziabile. Di risucchiarne l'anima nelle mie viscere, di avere cancellato ogni pudore, ogni cristiana vergogna con il mio comportamento immorale e imperdonabile. Ma ciò accadde intenzionalmente, dopo che lui partì all'improvviso. Allora io, Babette Guilleme, tornai a essere una donna pubblica, la puttana da possedere nei granai, negli angoli bui delle strade.»
    Tacque. Il pubblico, eccitato e scandalizzato, mormorava guardando il soffitto quasi a cercare nel cielo una risposta a tanta impudicizia femminile.
    «Riportatemelo», esclamò in un singhiozzo, «e io sarò la sua donna, solo la sua donna. Per sempre.»
    «Ma dunque, di chi parlate, esattamente, Babette?» le chiese Fabrizius con voce persuasiva.
    «Di lui, è evidente. Del solo, l'unico che ho mai amato, amo e amerò. Il mio Barthelemy: il diavolo.»
    A questa affermazione reiterata di amore indissolubile per il diavolo, i presenti cominciarono a rumoreggiare. Qualcuno, più coraggioso, fra quella marmaglia oziosa, che frequentava i tribunali dell'Inquisizione come in altri tempi la plebe frequentava il circo massimo, iniziò ad agitare nell'aria puzzolente un fazzoletto rosso, gridando: «E' una strega confessa, bruciatela, subito. Purifichiamo il nostro villaggio. Sacrifichiamo a Dio questo essere malefico, immondo. Prima che sopravvenga l'eclisse. Il buio ci sommerga. I cuori muoiano di terrore. E le bestie stramazzino ai piedi della folgore cieca».
    «Bravo, bravo», gli fecero coro altri sfaccendati. Tra di essi c'erano alcuni rampolli di famiglie facoltose. I loro occhi non si staccavano dal corpo e dal collo di Babette, carezzandola con la concupiscenza di mille mani lascive...
    Il presidente si sentì in dovere di fare una precisazione canonica: «Nell'ortodosso libro del "Martello delle streghe", alla questione decima si spiega come i diavoli possano abitare sostanzialmente gli uomini: 'Su istanza delle streghe, e con il permesso di Dio, i diavoli possono talvolta prendere possesso di qualcuno'. Questa giovane donna può essere posseduta dal diavolo e noi dobbiamo accertare, prima della sentenza, con tutti i mezzi a nostra disposizione, le sue reali responsabilità e in che modo si sia realizzato il patto diabolico. Inoltre è necessario leggere con attenzione i possibili rapporti fra uomo, donna e diavolo e le obiezioni alla riproduzione.»
    A quel punto Fabrizius le chiese a bruciapelo: «Volete sostenere dunque, imputata, che concedevate i vostri favori su istigazione diabolica, o per altro motivo, noto a voi sola, o per naturale istinto fisico?»
    Babette, come se ignorasse il luogo in cui si trovava, sbuffò. «Hanno detto che sono stata concepita da una strega. Hanno detto che mio padre era il diavolo. Hanno detto che sono stata iniziata ai vizi della carne da un vicino che mi ha deflorata. Aggiungete dunque anche questo ai vostri verbali. Mi sono data a molti, è vero, ma il mio fiore è solo per lui. E questa mia vita, infame, come dite voi, è il mio grido d'amore. Perché il mio Barth mi ha lasciata da un giorno all'altro? Perché mi ha abbandonata in questa vita grigia, senza sapore? Perché non viene almeno a prendermi? Quale pensate che sia l'unica strada per raggiungerlo, se non le fiamme del rogo?»
    Tutti restarono esterrefatti, di fronte a una confessione che invocava il martirio.
    «Volete dire, Babette, che intendevate richiamare il vostro amato con un comportamento scandaloso?»
    «Il mio corpo, il mio cuore, senza di lui era nulla.» Ora piangeva. «Potevo umiliarmi, regalando, o vendendo il mio sesso al primo venuto. A volte mi illudevo di riconoscere in qualche giovane ben fatto, il suo volto, il suo sorriso. Ma non era lui. Tutto era rivolto solo a lui, Barth, e non c'erano più stelle nella mia notte.»
    «Ma se fosse stato un impostore», tuonò improvvisamente il frate, «se fosse stato un giovane qualunque, un vagabondo? E se noi lo trovassimo, tutto quanto andate raccontando si ridurrebbe a fole, suggestioni della vostra mente eccitata.»
    «E i giovani Carl, Joseph, Manten e gli altri con le convulsioni, la bava alla bocca, che ripetono come ossessi il nome di questa cagna» gridò dal pubblico un energumeno assetato di sangue. «Con questa pitonessa in giro i nostri ragazzi non hanno più pace! E' il serpente, il vampiro maledetto!»
    «Silenzio, o faccio sgomberare l'aula», il martello del giudice calò come una mazzata sul tavolo di quercia.
    «Riconoscete infine, imputata, di avere stregato con il sesso questi giovani, dopo avere stretto un patto sessuale con il diavolo, che chiamate Barthelemy?»
    La fanciulla si asciugò le lacrime e rispose con una voce soffocata dalla pena: «Come volete, ma io non ho irretito nessuno, e se c'è stato un patto diabolico con il mio Barth fu solo un patto d'amore. Non di odio, come l'odio che leggo nei vostri occhi. Ma che sapete voi dell'amore?».
    I teologi tossicchiarono. «Faremo altri accertamenti, secondo la procedura», sentenziò il giudice, guardando il boia, coperto da una maschera.
    'La tortura, stanno pensando a un supplemento di tormenti' pensò Fabrizius osservando gli occhi iniettati dei giudici. 'Il loro piacere segreto. Quale perversione, nel nome della croce! Chiunque sia sottoposto a tortura e dichiarato colpevole, anche se non confessa il suo crimine, dovrà essere torturato al cavalletto e gli saranno scavati i fianchi con le unghie di ferro e dovrà sopportare pene degne del suo crimine, dice il "Malleus".'
    Babette, che già aveva ammesso ogni responsabilità fu ricondotta al supplizio. 'Amante del diavolo', secondo le sue esplicite parole, rivendicò fino alla fine l'amore assoluto per il bel demonio. L'avrebbe cercato ovunque. E così fu. La giovane 'strega' salì sul rogo per «eresia confessa, recidiva e impenitente», secondo la definizione del giudice e del "Malleus".
    «C'è da notare che un tempo le streghe erano colpite da una duplice pena: la pena capitale e il laceramento di tutto il corpo per mezzo di unghie ferrate, oppure venivano gettate in pasto alle belve. Oggi vengono bruciate, forse per il loro sesso femminile.
    Condannandoti giudichiamo che sei veramente eretica impenitente recidiva e tale da consegnarti al braccio secolare.»
    Radiosa, riferirono gli spettatori dell'immondo spettacolo. Fluttuante, nonostante trascinasse le gambe spezzate, con fratture esposte, e le sue dita sanguinanti, a cui avevano strappato le unghie, fossero anchilosate.
    Morì, sorridente come una stella cadente, senza soffrire, soffocata quasi subito dal fumo acre, e scomparve tra le fiamme. Forse, aggiunse qualcuno, quel suo Barth era davvero il diavolo che venne a riprendersela, cogliendola come una rosa tumida fra le ceneri incandescenti.
    I demonologi ebbero di che discutere a lungo. Si trattava forse di Asmodeo, un nobile demonio del "Grand Grimoire", maestro di lussuria e orribilmente tricefalo? Oppure l'amante infernale era l'azzimato e bellissimo Abigor? Stando alla descrizione della ragazza, non poteva che trattarsi del tenebroso 'cavaliere nero', attorniato da un esercito di fanatiche adoratrici. Spentosi il rogo, qualcuno raccolse davanti al patibolo un pezzo di carta bruciacchiata su cui, giurò, si leggevano ancora queste parole: «Addio amore bramato / mai cominciato già finito / due perle di fiamma nello sguar [...] pensieri [...] nubi cangian [...] / volare fino al sole [...]. Vieni amo [...] / cogli il mio fiore [...] brace [...] per sempre / sul mio cuore...”
     
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